Novembre 2011 – estratto da “Del treno e di altri racconti”
Calorie irlandesi
“Perché Dublino?” Questa è la domanda che mi è stata posta da mia madre e da un paio di amici quando ho annunciato che avrei passato quattro giorni nella città irlandese. Beh non c’è una vera e propria risposta, ho del tempo libero a disposizione, qualche soldo da parte, la guida già ce l’avevo e quindi, perché no?!
Il volo low cost della Ryan Air parte però da Orio al Serio e, nonostante sia alle dieci e quaranta, devo svegliarmi alle cinque del mattino. Immaginate cosa voglia dire per una persona che non è più abituata a rispettare l’usanza della sveglia? Va bene, è per una buona causa.
Sveglia quindi prestissimo, zainetto in spalla, quattro mandate alla porta di casa e cammino fino alla fermata del bus.
Pochi minuti dopo sono alla stazione di Porta Susa, treno puntuale fino a Milano Centrale, cambio sul modernissimo trenino fino a Bergamo. Basta uscire dalla stazione per trovare la banchina da dove parte l’autobus per l’aeroporto.
Soliti controlli di bagaglio e sicurezza e si parte, puntuali. Due ore e venti di sonno disturbato ed interrotto più volte, atterraggio.
Controllo passaporto, qualche domanda e ci siamo. Uno sguardo agli orologi presenti in aeroporto mi ricorda che c’è un’ora di fuso orario di differenza. Esco dall’aeroporto e gli autobus, a due piani, sono parcheggiati in contromano, sembra l’Inghilterra. Poi pago in euro il biglietto per la corsa fino in città e mi accorgo che le indicazioni sulle distanze sono espresse in chilometri, ok sono nel posto giusto.
La fermata dell’autobus dista un centinaio di metri dal Four Courts Hostel, dove ho prenotato, tempo di posare lo zainetto e riesco. La scelta di quest’ostello sulla sponda sud del fiume, Merchants Quay, l’avevo fatta perché mi sembrava in una posizione comoda ed equidistante dai punti d’interesse. Ciò che però non avevo valutato è che le distanze fossero così piccole.
In pochi istanti raggiungo la Christ Church Cathedral, un’imponente chiesta medievale fondata quasi mille anni fa e considerata la madre di tutte le chiese di Dublino. Pochi passi ancora e trovo il Dublin Castle con l’attiagua Royal Chapel nella quale resto incantato dalle canne scintillanti dell’organo che sovrastano la piccola cappella.
Sempre camminando con tranquillità attraverso uno dei numerosi ponti che attraversano il fiume Liffey fino ad arrivare al monumento dedicato al “Liberatore” O’Connell che mi notifica che sono già arrivato in O’Connell Street. La risalgo fino a quel lungo spillo piantato per terra che si allunga verso il cielo, The Spire, il monumento alla luce, notando diverse piccole statue e imbattendomi nel movimento di protesta ‘Occupy Dame St’. All’ombra della moderna struttura metallica c’è la piccola statua dello scrittore James Joyce, immortalato con il suo bastone. Cammino ancora senza una direzione precisa e scopro in una stradina una scultura a forma di grande mano all’interno di un giardino, poi arrivo fino alla Connolly Station e mi perdo nei pressi dell’Inner Dock quando tento di andare verso la Custom House.
Tiro fuori la mappa dal marsupio (in questi giorni ho riscoperto l’utilità di questo accessorio, meno pratico di uno zainetto ma anche meno ingombrante) e, tenendo come punto di riferimento le due piazze d’acqua Inner e Georges Dock ritrovo la direzione ed in pochi passi sono davanti all’architettura neoclassica del Palazzo della Dogana, Custom House appunto.
Il clima è fresco e piacevole, nell’aria si sentono i versi dei gabbiani, mi sembra di essere in giro da ore e di aver camminato tantissimo, in realtà è passata poco più di un’ora da quando sono uscito dall’ostello. Mi dirigo allora verso est seguendo il corso del fiume per arrivare fino alla moderna struttura del Convention Centre Dublin, che ricorda un grosso bicchiere in vetro inclinato dalla parte opposta rispetto al fiume. Ormeggiate sul Liffey River ci sono diverse barche storiche, che osservo mentre torno indietro puntando verso sud ovest.
Anche in questo caso non ci vorrà più di qualche minuto per raggiungere il Front Gate, l’edificio che da accesso al Trinity College. Sinceramente a prima vista non resto stupito più di tanto, ma una volta superato l’arco d’ingresso mi trovo davanti a quello che, nel mio immaginario, è l’ambiente tipo di come deve essere un campus universitario. Prati verdi, biciclette legate alle transenne e tutto intorno gli edifici dell’università più prestigiosa d’Irlanda. Tralasciando la visita al Book of Kells, uno dei libri più antichi al mondo, trascorro un po’ di tempo passeggiando tra i vialetti e volgendo lo sguardo e l’attenzione ai dettagli più vari dell’architettura ma anche delle persone che camminano da una parte all’altra.
Uscito dal College le luci arancioni che illuminano la struttura imponente della Bank of Ireland (un tempo House of Lords) mi avvisano che il sole sta per tramontare e ripercorrendo la Dame Street ritrovo i ragazzi che manifestavano poco prima, accampati sotto l’edificio della Banca Centrale.
Tornando verso l’ostello, alla ricerca di un inesistente bagno pubblico, faccio una deviazione ed entro in un pub, il Turks Head, dove ordino la mia prima birra irlandese. Anche se ho smesso di bere da quasi un anno mi sembra sprecato trovarmi qui, dove la cultura della birra e del pub è radicata nella popolazione come per noi italiani potrebbe essere un piatto di pasta. L’atmosfera all’interno del locale mi da un’impressione di calore familiare, c’è gente di tutti i tipi e tutte le età, dall’uomo distinto in giacca e cravatta al vecchino con la coppola ma anche un gruppo di ragazzi da poco maggiorenni ed una coppia di lesbiche. I toni della voce e della musica non sono bassi, qualche schermo piazzato qua e la trasmette partite di rugby, c’è rumore ma è piacevole, non è fastidioso.
La mia scelta ricade su una Smithwick’s, una birra rossa che scoprirò essere la preferita dagli irlandesi, nonostante non sia famosa come la Guinness, ho la fortuna di essere in orario preserale e la pago solo €3,50 invece di cinque. La schiuma è poco spessa ma stabile, il gusto è gradevole e corposo, la gradazione non sembra ma è bassa. Mi siedo su uno sgabello e riporto sulla Moleskine qualche appunto e sensazione sulle prime ore appena trascorse a Dublino, di fronte a me c’è un signore che non deve avere più di quarant’anni, che alterna sorsi alla sua pinta di birra bionda a azioni di gioco con il pupazzo Transformer del figlio di cinque anni al suo fianco. Terminata la mia pinta, saluto e mi incammino per le poche centinaia di metri che mi separano dall’ostello, e riscopro la chiesa medievale illuminata ad arte, spettacolare.
Il tempo di lavarmi (brillante l’idea del distributore gratuito di doccia-schiuma all’interno delle docce) e sono pronto per uscire nuovamente.
Deciso ad assaggiare una specialità tipica irlandese avvisto un pub che riporta al suo esterno una lavagnetta con su scritte alcune portate di menù. Al bancone ordino un Irish Stew ed una pinta di Kilkenny, e mi viene fatto cenno di accomodarmi presso uno dei tavoli li vicino.
Non passa molto tempo ed a far compagnia alla mia birra rosso ambrato arriva un piatto fondo fumante. L’Irish Stew o Lamb Stew è uno stufato di agnello con patate, carote e cipolle, aromatizzato con prezzemolo e timo, nella variante da me ordinata è cotto con la Guinness. La brodaglia scura che mi si presenta di fronte non ha un bell’aspetto ma l’odore, forte, è gradevole. Dal primo assaggio ne resto colpito, un sapore intenso ma piacevole, lo accompagno con del potato bread, pane sottile fatto con le patate. Ogni tanto do un bel sorso di Kilkenny che sembra sposarsi perfettamente.
Certo in Italia potrebbe sembrare strano cenare in un pub, ma qui è una cosa del tutto nella norma, a dimostrazione di questo nei tavoli prossimi al mio ci sono un signore sulla sessantina ed una coppia di ragazzi miei coetanei.
Uscito dall’Arlington decido di camminare un po’ per smaltire il pesante seppur ottimo pasto, non ho mai badato all’apporto calorico di ciò che mangio ma credo di averne ingurgitate a sufficienza per soddisfare il fabbisogno giornaliero di un adulto. Trovo un alimentari della Spar e compro una bottiglia d’acqua da tenere in ostello per la notte e cammino ancora un po’ finché non mi trovo davanti ad un’altra chiesa medievale, illuminata in maniera da far risaltare le sue forme simmetriche che si allungano verso il cielo, con le sue nuvole grigie disseminate nel cielo blu. Tornando verso l’ostello scopro la vicinanza con quello indicato come il pub più vecchio d’Irlanda, The Brazen Head. Lascio l’acqua in camera e torno verso il mio terzo pub della giornata.
La struttura attuale risale al 1668 ma quella originaria fu fondata nel 1198. Non vedo luogo migliore nel quale ordinare la mia prima pinta di Guinness a Dublino che mi viene spillata con maestria seguendo le varie fasi che ne determinano la spillatura perfetta.
Le diverse stanze del pub sono collegate da brevi e stretti corridoi, sulle pareti sono affisse varie insegne e targhe antiche ma anche locandine meno datate. Sorseggio la mia pinta osservando i vari ambienti, in una delle stanze c’è una cassa da morto poggiata al fianco di un vecchio caminetto, poi c’è un atrio con delle scale e si arriva alla Music Room. C’è molta gente, una tavolata di ultra settantenni che brinda, dei ragazzi che discutono. Qui c’è un secondo bar che spilla birra e serve whiskey a pieno regime, al fianco del balcone un piccolo palco sul quale sta per iniziare un’esibizione. Il frontman del gruppo di non più giovani musicisti presenta la sua band e poco dopo iniziano a suonare il loro country blues di tono irlandese acclamati dal pubblico. La musica è piacevole ed il clima nel locale è coinvolgente, se qualcuno passando ti urta minimamente è pronto a scusarsi con un sorriso ed alzando la sua pinta verso la tua per brindare. Sono da solo ma allo stesso tempo in compagnia, sembra che siano tutti amici qui dentro, scambio prima qualche parola con un simpatico signore con delle enormi basette e poi continuo la serata chiacchierando con una splendida biondina scozzese e le sue due amiche.
Il mattino seguente conosco Floriano, un ragazzo italiano appena laureato in chimica che ha deciso di passare un mese qui per studiare l’inglese. Insieme a lui camminiamo fino alla Cattedrale di San Patrizio, ma arriviamo proprio mentre si sta svolgendo la messa e la prossima visita guidata non inizierà prima di cinquanta minuti. Ci giro intorno per osservare la struttura da diverse angolazioni, passeggiamo un po’ nell’attiguo parchetto per poi dirigerci a nord ovest. Una piacevole camminata di una ventina di minuti costeggiando la sponda nord del Liffey nella tranquillità della domenica mattina. Arriviamo al Phoenix Park, il parco pubblico più grande di Dublino. Prati verdi, tanti, alberi e sentieri, laghetti. Un campo da rugby, spazi per altri sport, strade e percorsi da fare in bici o a piedi, un enorme pietra che ricorda un obelisco posta al centro di una larga area verde, è il Wellington Monument.
Vero mezzogiorno invertiamo la marcia, lui torna verso l’ostello io punto a sud, in direzione del Guinness Storehouse. Avvicinandomi al museo da nord intravedo le strutture della fabbrica che produce la birra che ha reso Dublino e l’Irlanda famose in tutto il mondo.
Le strade diventano vicoli che si infilano tra alte mura di edifici fatti di piccoli mattoni arancio scuro e marrone, da un finestrino c’è uno sbuffo di vapore bianco. Il cartello indica che mancano un centinaio di metri, basta girare l’angolo, mi vengono in contro persone con l’espressione alticcia, ognuna con un sacchetto di carta marchiato Guinness. La coda in biglietteria è rapida, appena entrato vengo accolto da una delle guide che mi dice che se sono interessato tra qualche minuto farà una breve presentazione, decido di aspettare, nel frattempo rivolgo lo sguardo verso l’alto e non è difficile intravedere l’enorme pinta di birra in vetro che si erge su sette piani.
Puntuale la guida riunisce un po’ di persone per un discorso da un paio di minuti sulla storia della birra Scura e ci saluta con la frase ‘This is where the magic happens’.
Dal piano terra fino al quinto piano del museo sono illustrate tutte le cose che compongono la Guinness, dagli ingredienti alla storia, dalle fasi della lavorazione all’espansione nel mondo, dai mezzi di trasporto alle targhe pubblicitarie, dall’albo dei dipendenti al primo assaggio di birra costituito da un quarto di pinta. Al quinto piano si trovano bar e ristoranti che servono portate che vedono la birra scura come protagonista e c’è uno spazio riservato alle ricette consigliate. Si arriva infine al settimo piano, il Gravity Bar, la stanza panoramica con il bar circolare al centro. Decido di spendere qui il mio buono per una pinta gratuita, mi viene spillata seguendo rigorosamente i sei passaggi necessari ed in due minuti ho davanti a me lo stato dell’arte della birra stout. I posti a sedere sono tutti occupati, ma non è un problema, è piacevole camminare osservando tutta Dublino dall’alto. Riconosco le chiese ed alcuni dei siti visti il giorno prima e, grazie alle scritte adesive sul vetro, individuo le Wicklow Mountains. Le montagne dalle quali arriva l’acqua usata per produrre la Guinness, a differenza delle dicerie che indicano l’acqua marrone del fiume Liffey, sono l’unico rilievo che riesco a vedere, tutto intorno è piatto. La visibilità è limitata dalla foschia e dal cielo grigio, ma la sagoma delle sopra citate montagne è l’unica che sgorgo. Mentre bevo con calma il mio omaggio osservo alcuni gabbiani che restano immobili in aria per poi trovare la corrente giusta e sfruttarla per centinaia di metri senza muovere le ali. La mia visita si conclude tornando al piano terra per qualche acquisto, per poi restare affascinato dalla sala buia con le colonne costituite da monitor che riproducono contenitori che si riempiono pian piano di birra fino a diventare delle vere e proprie pinte perfette formando un piccolo labirinto. Successivamente all’esterno, chiedo a dei ragazzi di farmi una foto davanti ai cancelli neri con la scritta del marchio e faccio la conoscenza di un allegro gruppetto di Estoni ubriachi. Sono qui per la partita che vede impegnata la loro nazionale contro quella irlandese e mi salutano sventolandomi un cartellino rosso, sono stato espulso!
La mia giornata prosegue con un’altra camminata, fino a Merrion Square, la piazza nella quale si trova l’Oscar Wilde Memorial, una statua a dimensioni reali dello scrittore, sdraiato su una roccia. Vado poi a sud e mi accorgo che il sole sta tramontando quando vedo un bel colore giallo arancio sbucare dagli alberi del St. Stephen’s Green, un parco molto bello e ben curato che in passato era invece il luogo in cui si tenevano le impiccagioni pubbliche.
Ripunto verso nord, percorrendo la affollata e famosa Grafton St., una larga via pedonale piena di negozi.
Mi trovo tra le stradine ricche di negozietti, gallerie d’arte e, ovviamente, pub di Temple Bar. Deciso a mangiare qualcosa vengo attratto dalle numerose bandiere e dall’immagine di un ciclista disegnato sulla facciata principale. Entro nell’Oliver St John Gogarty, e mi dirigo verso il bancone. C’è molta gente, un signore con una chitarra accompagnato da una ragazza con un violino suonano la colonna sonora, ordino una pinta e mi godo l’atmosfera al punto di dimenticarmi di mangiare.
Un’ora dopo sono in ostello, il programma è semplice, riorganizzo le idee e gli appunto, controllo le e-mail ed esco per cena. Tornando in camera incontro però Erin, l’australiana, che mi chiede se l’accompagno al Pub Crawl, il giro dei pub.
Sono stanco, ad eccezione della piccola colazione dell’ostello non ho ancora mangiato, non ho mai trovato interessanti queste iniziative ma accetto senza esitazione.
Usciamo verso le diciannove ma sul punto indicato non c’è nessuno, allora prendiamo da bere nel Temple Bar Pub. Torniamo sul luogo dell’appuntamento e ci sono quasi tutti i partecipanti, ottengo il mio braccialetto. Cos’è il Pub Crawl? si tratta semplicemente di un giro organizzato in diversi pub o locali di una certa città, nei quali si ha diritto a riduzioni o omaggi mostrando il proprio braccialetto. Ripeto, non sono mai stato entusiasta di queste iniziative, soprattutto ora visto che, ad eccezione di questi giorni, non bevo più. Ma va bene, è pur sempre una nuova esperienza. Erin è l’unica ragazza del gruppo, ora mi è più chiaro perché mi ha invitato, aveva bisogno di una faccia minimamente familiare in mezzo al gruppo di sconosciuti. Ci assentiamo nuovamente alla ricerca di un bancomat visto che Erin ne aveva bisogno, lo troviamo all’interno di un piccolo market, io ne approfitto per comprare una banana. Il frutto giallo ricco di potassio costituirà la mia cena, prima di terminarlo mi ricorderò di dedicare un paio di foto, in memoria del Banana Teddy Crew di Stoccolma, pensando ad Andre, Chiedy e Pierre.
Si comincia dal The Workmans e la prima birra è in omaggio (e vorrei vedere! con 12€ di braccialetto), il locale è semi deserto, siamo tutti attorno ad un alto tavolo rotondo, iniziano le conversazioni. Il gruppo è vario, un paio di americani, un paio di australiani, un argentino, un turco ed un belga e forse qualcun altro.
La formula prevede un tempo di quaranta minuti per ogni locale, poi i due accompagnatori ricompaiono per andare al prossimo. Giriamo altri quattro pub, poco affollati, la mia impressione che fosse un modo per far lavorare in altri orari pub che altrimenti sarebbero deserti viene confermata. C’è il pub che ti offre uno shot di Sambuca con ogni birra che ordini e quello che invece serve i cocktails a prezzo scontato, i miei nuovi amici sono più entusiasti di me del magico braccialetto.
Parlo di viaggi con l’argentino ed il turco, di corsa con il newyorkese e di surf con i due ragazzi australiani che non si risparmiano a darmi una serie di consigli ed indirizzi utili.
Continuiamo a cambiare locale, in alcuni troviamo musica dal vivo, continuiamo a bere. Pian piano il gruppo va decimandosi, alcuni abbandonano per stanchezza, altri per ubriachezza fatale, uno dei due accompagnatori dice che non sta bene, l’altro è scomparso, si scusa dicendo che il giorno dopo sarebbe stato gratuito e va via. Siamo rimasti in cinque o sei, torniamo in un pub e poi in una sorta di discoteca. La musica è a dir poco oscena ma si balla fino a tardi, chi se ne frega.
Il mattino seguente è lunedì, Erin è un fantasma, io esco verso metà mattinata per fare colazione in un cafè li vicino. Ho fame, una fame incredibile, per sette euro mi viene servito un piatto che chiamano Irish Small Breakfast, insomma la piccola colazione irlandese. Ci sono due salsicce, due grosse fette di bacon, un uovo, del burro, due fette di pane tostato e una rondellina marrone che credo sia black pudding, una sorta di salsiccia sanguinaccio, tagliata a fette e fritta. Mentre ingurgito grassi saturi provo a bere un po’ di tea, ma l’impresa non è facile, la temperatura è ustionante.
Ancora reduce dalla nottata ma con la pancia finalmente piena mi avvio fino a Tara St Station, da dove partono i treni della Dart. Al distributore automatico il biglietto di andata e ritorno costa €3,70. Il tragitto fino ad Howth, paesino quindici chilometri più a nord, dura una quarantina di minuti, il paesaggio fuori dai finestrini è piatto e verde, poco prima di arrivare viene sostituito dal grigio e dal bianco del mare lievemente mosso.
Ad accogliermi c’è un vento freddo ed il fatto che la cerniera della mia giacchetta tecnica abbia ceduto in nottata non è d’aiuto. Passo un po’ di tempo sul molo osservando, senza disturbare, un pescatore immobile con lo sguardo verso quelle acqua fredde e grigie. Ci sono numerose imbarcazioni da pesca ormeggiate. Lungo il molo c’è qualche negozietto, un paio di piccoli ristoranti ed alcune pescherie, trovo una stanzetta adibita ad ufficio turistico e mi informo su come raggiungere l’Howth Summit, ovvero il punto più alto della collina sulla quale sorge il villaggio. Arriva l’autobus 31B, da Dublino, e per percorrere poco meno di quattro chilometri mi costa ben €1,20, se non fosse stato per i postumi da pub crawl l’avrei fatta tranquillamente a piedi la stradina che scala la collina.
Arrivato in cima seguo gli altri passeggeri su una strada che va in salita, non ci sono le piccole case del villaggio ma vere e proprie ville. Una volta in cima alla collina ci sono vari sentieri che discendono sul lato opposto, nel verde, mi basta camminare poche decine di metri per trovarmi assolutamente solo. La signora irlandese con il ragazzo italiano che avevo conosciuto poco prima non si vedono più alle mie spalle, solo verde.
Di fronte a me si va via via delineando un paesaggio magico, con il faro Baily Lighthouse posto sull’estremità di uno strapiombo sul mare, alle mie spalle il verde con qualche sfumatura marrone rosso e tutto intorno l’assoluto niente. Mi avvicino ancora verso il faro seguendo il sentiero e poi lo lascio per sedermi sull’erba, poco distante dal tracciato di terra e pietre. Scatto diverse fotografie e poi resto incantato a godermi il paesaggio, oltre a me ci sono solo due gabbiani, ma non emettono alcun verso, addirittura il mare, poco agitato, sembra scagliare le sue piccole onde in silenzio per non disturbare l’atmosfera di quiete. Me ne sto in pace per un po’ prima di percorrere a ritroso la strada per tornare a Dublino.
Lunedì sera, la sfida questa volta sarà di quelle epiche. Leo Burdock’s è il più famoso fish and chips della città e spesso bisogna fare code estenuanti al freddo prima di essere serviti. Sono fortunato, €8,90 ed in un minuto esco dal piccolo locale con tra le mani un grosso fagotto di carta del peso di un paio di chili. Scelgo casualmente uno dei tavoli dell’ostello, foto di rito alla montagna di pesce fritto e patate, mi munisco di una forchetta ed una lattina di Coca Cola ed inizia la sfida. L’odore è pazzesco, ti da subito la sensazione di quanto sia buono e allo stesso tempo di quanto sia grasso. Inizio dal filetto di merluzzo impanato e fritto ed ogni tanto mi interrompo per passare ad una delle enormi patate fritte tagliate a mano. La missione è più difficile del previsto, il senso di sazietà arriva in fretta e, guardando nella carta, c’è ancora tanta sostanza, mi aiuto con un’altra lattina e riesco a terminare l’enorme porzione in quarantaquattro minuti, la sfida è stata portata a termine non senza fatica.
Per smaltire passeggio sul lungo fiume, l’edificio del Four Courts proprio davanti all’ostello è illuminato e la sua cupola azzurra che spicca in un cielo blu scuro. La luna si nasconde tra le nubi ma quando viene fuori è bellissima, in fase calante ma ancora sufficientemente piena per essere stupenda.
Quarto ed ultimo giorno della mia breve visita, decido nuovamente di prendere la Dart ma questa volta in direzione sud. Il biglietto questa volta mi costa €4,40 il tempo di percorrenza anche in questo caso è vicino ai quaranta minuti, sono a Dalkey. Da come era descritta sulla guida mi aspettavo un luogo incantevole, in realtà la cittadina è carina con le sue stradine con nomi italiani ed i piccoli castelli medievali, ma non mi è sembrata interessantissima. Resto affascinato dalle piccole botteghe, la panetteria e la libreria, meno dalle ‘attrazioni note’ come il Dalkey Castle e la chiesa. Meno di un’ora e riprendo il trenino per tornare a Dublino.
Girovago per i vicoli di Temple Bar e decido di provare un’altra specialità della cucina locale, entro così in un grazioso ristorante, The Shack. Ambiente carino, nello stesso legno scuro dei pub ma più curato. La gentilissima cameriera mi porta il menù ed una caraffa d’acqua. La mia scelta ricade sullo Sheppard’s Pie accompagnato da una pinta di Currim Gold Celtic. Apparentemente il piccolo piatto fondo di forma ellittica sembra un po’ scarso come porzione, in realtà scavando sotto il corposo strato di purea di patate trovo una sorta di ragù con carne, carote, cipolle e qualche aroma. Ad accompagnare il piatto ci sono delle carotine bollite e un paio di cavoletti, la birra bionda che ho scelto anche questa volta si sposa bene al piatto. Estremamente soddisfatto su qualità di cibo e servizio compilo il questionario sulla soddisfazione assegnando il voto più alto a tutte le voci, pago, lascio la mancia ed esco. Continuo a vagare per le stradine di Temple Bar, un’ultima visita al Gogarty per una Smithwick’s e rientro in ostello in serata.
Quel piccolo genio con gli occhi blu che viene dall’Australia, Erin, è davanti ad uno dei computer a disposizione e non sa se mettersi a ridere o a piangere perché il suo volo aereo delle 7:40 era al mattino e non al pomeriggio come pensava lei, ed ora sta cercando un’alternativa per tornare a Londra l’indomani. La saluto e salgo su per preparare lo zainetto, esco poi per comprare un po’ di frutta per cenare e torno su sperando di riuscire a riposare qualche ora visto che la sveglia è prevista per le quattro.
Mettici il pranzo che è duro a morire, mettici i due metallari tedeschi che entrano ed escono, ruttano e scoreggiano e mettici ancora i lavori in strada (che qui vengono fatti nelle ore notturne per non intralciare il traffico di giorno), prendo sonno verso le due.
Puntuale My Generation mi ricorda che devo scender giù. Ritrovo Erin e faccio la conoscenza di un simpatico americano. Navetta fino all’aeroporto, un abbraccio ad Erin, una stretta di mano all’altro mi avvio al gate. Volo fino a Orio, autobus fino alla stazione di Bergamo, treno regionale fino a Milano Centrale, dove pensavo di dover aspettare due ore a causa di una sbagliata indicazione dell’addetto bergamasco. Poco male, appena avvisto un regionale per Torino salto su e mi aggiudico un posto a sedere prima dell’invasione di una massa di persone numerosissima. Finalmente a Porta Susa e, con un altro bus, a casa.
Torno da una breve ma intensa esperienza che mi ha permesso di apprezzare Dublino ed i suoi abitanti. Probabilmente sono stato fortunato ma con piacere ho notato che gli irlandesi non sono cordiali e gentili solo al pub dopo qualche pinta di birra ma anche quando sono sobri ed hai bisogno di indicazioni o vuoi solo scambiar qualche parola mentre aspetti il treno o sei in coda.
Se proprio si vuol trovare una nota dolente basta guardare ai prezzi. Gli ostelli sono in linea con il resto d’Europa ma il cibo ed i trasporti sono più cari rispetto all’Italia, sono però proporzionati allo stipendio medio degli irlandesi. Inoltre le portate principali dei menù sono talmente abbondanti e calorici che possono considerarsi un pasto completo, a volte anche due. Se si vuole risparmiare ci sono i fast food, ma così facendo si perde una gran parte della fetta di esperienza irlandese.