Indonesia 2008

Settembre 2008 – estratto da “Del treno e di altri racconti”

Indonesia, tra onde e sorprese

La sveglia suona poco dopo le otto e, come ogni mattina, non ce la faccio! attivo la modalità che uso quando devo andare in montagna a fare snowboard, che consiste nell’automazione dei movimenti, uno zombie che dal sonno si attiva e lentamente si prepara. Alle 8.30 puntualissimi arrivano mamma e papà a prendermi, si parte verso Malpensa.

La coda al check-in è interminabile come le solite raccomandazioni, arrivo al metal detector, tutto in regola, ma mi vengono sottratti bagnoschiuma e crema solare, non ricordavo la normativa per cui i liquidi sopra i 100ml non possono essere imbarcati nel bagaglio a mano.

Il primo aereo è diretto a Singapore, le prime dodici ore in solitaria, lo sguardo fuori dall’oblò, cuffie in posizione, sonno che va e viene.

Le hostess indossano abiti che ricordano la tradizione malese, il pollo kung pao con riso ed i noodles saltati sono eccellenti.

Atterraggio puntuale, sky train per passare da un terminal all’altro, e si riparte per altre due ore e mezzo di volo.

Ngurah Rai, meglio conosciuto come Bali Airport, Indonesia. I miei piedi sono di nuovo sulla terra ferma, esatto ferma, come la coda per pagare i venticinque dollari americani necessari per il visto e superare poi un blando controllo di sicurezza ad opera di un simpatico cicciottello addetto alla sicurezza.

Cambio valuta unificato presso tutti gli stand in aeroporto, per ogni euro mi vengono consegnate 13100 rupie indonesiane, compro un voucher a prezzo fisso per il taxi e mi dirigo al parcheggio. Complice la stanchezza, una volta caricato lo zaino nel bagagliaio, faccio per salire in auto dallo sportello destro ma mi accorgo che c’è qualcosa che non va, uno strumento circolare e dei pedali posizionati dove non dovrebbero essere, qui le auto hanno la guida a destra, come in Inghilterra. L’autista si fa una bella risata chiedendomi in un inglese arrotondato se volessi guidare io, rifiuto sorridendo e gli cedo il posto. Lungo il percorso ho un primo assaggio dello stile di guida locale, dei veri e propri kamikaze a bordo di ogni sorta di veicolo, non esistono cortesie e precedenze, il più grosso ha la meglio o, in alcuni casi il più veloce, un quarto d’ora dopo sono a destinazione.

Hotel Sayang Maha Mertha, Kuta. Lasciano compilare a me la schedina di notifica, probabilmente per non farmi dimenticare il mio lavoro, la mia camera prenotata online per le prime notti non è ancora pronta, per tanto mi accomodo su un divanetto e ricambio i sorrisi di una ragazza nella mia stessa situazione. Non ho con me il telefono cellulare, lasciato a casa per scelta, nel tentativo di avvisare i miei che sono arrivato e che il viaggio è andato bene noto subito che la connessione internet non funziona e degli internet point segnalati sulla cartina della guida nessuna traccia. Mi basta attraversare la stradina male asfaltata per entrare in un wartel, una piccola stanza stracolma di telefoni e cavi elettrici, e scopro che quelle 7000 rupie al minuto per telefonare in Europa non sono altro che cinquanta centesimi di euro, o poco più, riesco quindi nella mia prima missione. Resto stupito quando poco dopo entro in un piccolo bazar per reperire una bottiglia d’acqua e un bagnoschiuma.

Al mio ritorno la camera è pronta, pochi minuti ancora per risolvere un piccolo problema allo scarico del bagno e posso finalmente rilassarmi, non è il massimo della pulizia ma è spaziosa e fresca, cosa su cui non avrei scommesso vista la temperatura e l’umidità che ci sono fuori.

Mi risveglio dopo un paio d’ore un po’ intontito, realizzo di essere finalmente in vacanza, da solo, a tantimila chilometri da casa! Indosso un paio di pantaloncini e cammino in cerca di un posto dove mangiare, ma ben presto cambio mira e cammino spedito verso l’oceano, percorrendo le varie deviazioni e regalando sorrisi e ‘no thanks’ ai numerosi negozianti che mi si ponevano davanti. 

Mi accomodo sulla sabbia di Kuta Beach per godermi il primo tramonto in compagnia del mio nuovo amico, l’oceano Indiano. Sulla striscia di sabbia che divide il mare dalla strada ci sono decide e decine di altre persone li per lo stesso motivo e il cast di attori composti appunto dall’oceano, dal sole e dal cielo non deludono, offrendo uno spettacolo degno di esser vissuto in silenzio, senza pensieri e senza fretta.

Lasciato il teatro naturale torno sulla strada e, dopo qualche sguardo ai menù e fotomenù, decido di consumare la mia prima cena presso il Kuta Seaside Food Center, che altro non è che una particolare raccolta di chioschetti. La mia scelta ricade su un piatto denominato Sate Ayam, dei piccoli spiedini di carne con una salsetta che al primo assaggio provoca una sensazione strana ed insolita sul palato, ma che poi si rivela molto piacevole. Decido di concedermi una Bintang, la birra locale più conosciuta e pubblicizzata. Mangio con calma, a parte me ed un paio di biondine il resto della clientela è composto da gente del luogo e da qualche cinese.

Tornando verso l’hotel incontro varie difficoltà, vista la totale assenza di indicazioni e nomi delle vie, ed i numerosissimi negozietti tutti molto simili di certo non aiutano, impiego circa mezz’ora per coprire la stessa distanza che all’andata avevo coperto in un terzo del tempo. Nonostante questo piccolo inconveniente la mia prima giornata si conclude con varie sensazioni piacevoli.

Nuovamente Kuta Beach, non so neppure io come ci sono arrivato visto che dalla solita stradina ho sbagliato e sono finito per approdare dall’altra parte, insomma da dove in teoria finisce. Nel frattempo ho anche avuto modo di vedere un’altra parte di Legian e di Kuta, e di trovare altri mille indonesiani intenti a vendermi qualcosa piuttosto che offrirsi disponibili per un passaggio in motorino ‘transport’ o per un massaggio ‘massag’, i prezzi di merci e servizi sono trattabili a livelli estremi.

La spiaggia alla luce del giorno si conferma una striscia larga appena una quindicina di metri che si estende per circa tre chilometri, c’è molta gente ma non è affollata. Studio la situazione delle onde osservando i locals e scatto qualche fotografia. Scambio poi due chiacchiere con un surfista del luogo e mi faccio consigliare sugli orari migliori e sulle maree, poi mi sposto nella parte della spiaggia più prossima alla strada, dove alcune palme riparano dal sole i ragazzi che noleggiano le tavole e quelli che vendono bibite ghiacciate. 

Passo il resto della giornata a reperire informazioni sui mezzi di trasporto per le mie prossime tappe ideali e scopro il BooBoo’s cafè, un localino disposto su due piani molto carino che serve una selezione di cibo indonesiano e di healty food, cibo che fa bene alla salute insomma, e che offre la connessione wifi gratuitamente, diventerà il mio locale preferito, credo di avere ancora il biglietto da visita nel portafoglio, a distanza di tre anni.

Il mio terzo giorno sull’isola di Bali è il giorno delle rivelazioni. Inizia male al mattino quando, dopo due anni dall’esperienza del surf camp a Lanzarote, rientro in acqua con una tavola a noleggio, onde da un metro a un metro e mezzo, ma riesco a concludere poco, sono davvero fuori forma. Passeggiando per strada conosco Made, un simpatico autista di bemo (furgoncino) con il quale mi accordo per gli spostamenti dei giorni a venire. La più grande rivelazione forse però è quella sulla mappa, capisco finalmente che l’indicazione dell’albergo non è un errore di posizionamento ma sono io che continuo a guardare la cartina dal lato sbagliato, me ne accorgo grazie al punto di riferimento più fedele e sincero, il mare. In serata l’ultima rivelazione, nascosto in mezzo alle numerose discoteche e locali happy hour trovo l’Espresso Bar. Ad attirarmi nel locale poco illuminato sono le note di ‘Johnny B. Good’ cantato con voce potente e con tonalità più dure da una band del posto. Entro a bere un paio di birre, c’è anche la possibilità del karaoke, mi godo lo spettacolo finché non sento i primi accordi di Wonderwall degli Oasis, e mi faccio strada tra gli altri clienti per supportare il ragazzo con accento australiano che si preparava a cantarla.

 

Venti chilometri più a sud si trova Padang Padang, sulla costa ovest della penisola di Bukit, la seconda tappa. Il viaggio in furgone di quasi un’ora è stato confortevole nonostante Made, l’autista, spesso interpretasse il ruolo di pilota per gareggiare contro il resto dei mezzi per strada. Sono sollevato di aver scelto questa soluzione in luogo dello scooter, non oso immaginarmi in sella e con lo zaino in spalla in mezzo al traffico delirante prima e tra le stradine dissestate poi.

Soggiorno in una camera molto spartana presso un home stay economico gestito da una ragazza del luogo, posto lungo l’unica stradina che costeggia la costa e va verso sud. Quando dico che è spartana intendo veramente spartana, oltre al mio materasso ce n’è un altro più piccolo,  un ventilatore arrugginito e uno sgabello di plastica, poi si passa attraverso un rispostiglio e si arriva al cesso, che non è un bagno, ma un vero e proprio cesso. Acqua fredda garantita giorno e notte, elettricità che va e viene.

Mi allontano un centinaio di metri dalla base e trovo un paio di scimmiette intente a scassinare un bidone dei rifiuti in cerca di cibo, poco più avanti inizia la scalinata che porta ad una strettoia tra la roccia, ancora qualche scalino più giù e mi ritrovo in una caletta che sembra il classico sfondo da monitor o la location di un film. Spiaggia di sabbia chiara, pochissime persone, tutto intorno vegetazione fitta ed il mare immobile azzurro per i primi metri diventa poi di un blu intenso. 

Mi si avvicina una vecchia signora a chiedermi se voglio una birra, le dico gentilmente di aspettare qualche minuto, perché sto per tuffarmi in acqua per nuotare. Mi tuffo, nuoto, esco, rientro e mi rituffo e così via, quando la vecchina vede che mi siedo sulla sabbia e riprendo la lettura de ‘La Baia della Luna’ di Winki allora mi si ripresenta con la sua proposta che accetto volentieri. Spiaggia piccola e poco affollata, mare dai colori divini, una buona lettura ed una birra fresca, che desiderare di più?! Il posto è talmente bello che non mi stupisce la presenza di una coppia di sposi che si fanno immortalare da un fotografo. Incamminandosi lungo il bagnasciuga e sorpassando qualche roccia si trovano altre micro spiagge sormontate dalla vegetazione fitta.

Ho scelto Padang Padang come punto d’appoggio per la sua vicinanza a Uluwatu, Impossibles e Dreamland, ma camminando per i sali scendi con il caldo e l’umidità mi accorgo ben presto che è meglio fornirsi di un mezzo di trasporto.

Noleggio allora uno scooter dalla insolita cilindrata di 110cc marchiato Honda e mi dirigo verso Dreamland, poco più di un chilometro a nord. A conoscenza della piatta dell’oceano sono comunque incuriosito da questo famoso e tanto nominato spot. Pochi minuti dopo sono sul posto, passo attraverso ad una sorta di agglomerato di costruzioni e arrivo nella caletta, in acqua c’è poca gente, la maggior parte dei surfisti oziano nei piccoli bar sulla spiaggia. Scatto qualche foto, parlo un po’ con un paio di ragazzi incuriositi e riprendo la marcia in direzione opposta, ammetto che mi ci vuole un po’ ad abituarmi a guidare in contromano, mi sento come un bandito in fuga.

Non essendo certo di quanta strada dovrò percorrere mi fermo a comprare un paio di bottiglie di vodka, no, non voglio ubriacarmi e vagare in scooter rischiando di uccidermi, qui la benzina la vendono nei negozietti lungo la strada che espongono cartelli fatti a mano con la scritta Petrol ed usano le bottiglie della svedese Absolut, a volte è giallognola altre volte azzurrina, il mio mezzo sembra gradirla. 

A causa delle condizioni della strada devo moderare la velocità e fare attenzione metro dopo metro. Andando verso sud trovo uno slargo sulla strada, mi giro verso destra e noto un posto di guardia ed una piccola coda ordinata di auto e scooter, sono arrivato senza saperlo al Pura Luhur Ulu Watu, ovviamente lungo la strada non c’erano indicazioni di alcun tipo. Il tempio è dedicato agli spiriti del mare ed è costruito su una scogliera a strapiombo sul grande blu. All’ingresso  mi viene consegnato un sarong, una sorta di mezza coperta di cotone da mettere in vita come se fosse una gonna e da legare con un nastro colorato. La seconda accoglienza viene invece dalle solite scimmie, qui presenti in grande quantità. Cammino seguendo lo stretto percorso che costeggia l’oceano scattando tantissime fotografie, la vista della roccia verticale coperta qui e là di verde si interrompe bruscamente per lasciare spazio alla schiuma bianca dell’oceano. Il percorso passa attraverso alcune torrette decorate per poi concludersi in una sorta di anfiteatro dove, pagando un supplemento, si assiste alla danza Kecak, la danza delle scimmie. Si tratta ovviamente di uno spettacolo in maschera architettato per i turisti ma è piacevole assistere alla rappresentazione mentre sullo sfondo il sole rosso infuocato si tuffa lentamente nel Pacifico. 

Saluto MariCruz, una carinissima e simpatica ragazza cilena a cui ho dato qualche consiglio su come usare la sua fotocamera reflex durante lo spettacolo, e mi dirigo al parcheggio. Appena varcata la soglia dell’uscita mi rendo conto che la strada è totalmente priva di illuminazione e nel frattempo è calata l’oscurità, quella vera, nera come la pece nonostante siano appena le sette di sera. Sbaglierò strada un paio di volte ma alla fine riuscirò a tornare all’home stay.

Mentre impartisco ai noodles lezioni di nuoto nel litro di birra con cui li accompagno mi si avvicina una biondina australiana porgendomi la sua fiaschetta ed invitandomi a dare un bel sorso. Non so se fosse realmente vodka per persone o quella che vendono per i motorini, fatto sta che poco dopo mi unisco a lei ed alla tavolata mista di australiani e brasiliani a continuare a bere, parlare e ridere, mentre l’elettricità continua ad andare e venire creando un’atmosfera ancora più rilassata e semplice. E pensare che mi trovo ad appena una ventina chilometri dalla caotica Kuta, totalmente un altro mondo.

La nottata si rivela piacevolmente fresca e senza insetti, non pensavo di riuscire a dormire così bene, poche ore, ma bene.

Intontito faccio colazione con Toki, il capellone surfista neozelandese che dorme nella camera a fianco alla mia, e mi faccio spiegare come raggiungere Impossibles visto che il giorno prima non lo avevo trovato. Lui deve andare in quella direzione, mi dice quindi di seguirlo e partiamo con i nostri borbottanti trabiccoli a due ruote. Arrivati sul luogo lui prosegue ed io mi fermo, ma non hanno il resto da darmi per il parcheggio, decido allora di andare prima ad Ulu Watu, stavolta lo spot e non il tempio. Lo stesso tratto di strada del giorno precedente la percorro in meno della metà del tempo, sempre andando pianissimo, probabilmente durante la notte l’avranno accorciata. Anche qui c’è da pagare per parcheggiare, ma hanno il resto da darmi. Percorro l’ampia scalinata e arrivo giù tra le scogliere una piccola spiaggia da dove si entra in acqua. Su per una scaletta improvvisata tra le rocce per avere una visione migliore dell’arco d’oceano sottostante. Onde poche, ma di un certo livello, in acqua c’è molta gente, ma non è affollato. Salendo ancora finisco in una stradina dove ci sono vari warung, mini ristoranti e chioschetti che servono cibo e bevande. C’è un ampio terrazzamento con un cameraman intento a filmare, mi diletto a fare qualche foto per poi sedermi su una roccia posta all’esterno e mettermi a leggere rilassato.

Vengo interrotto due volte, la prima, scontata, da una signora che voleva vendermi degli adesivi a prezzi altissimi; la seconda, inaspettata e piacevole, dall’arrivo di una sirena, ma nel vero senso della parola! Una biondina alta poco meno di me, con una 5’6″ sotto braccio, la posa con cura per terra e si siede qualche centimetro davanti a me e li la vedo! vedo la sirena! non sono sotto l’effetto di alcol o droghe, intendo la  sirena che aveva tatuata sulla schiena, un disegno grazioso e curato nei dettagli di una ventina di centimetri circa. Me ne innamoro all’istante, della biondina, non della sirena. E’ australiana ed è li con delle amiche in vacanza, le stesse amiche che qualche minuto dopo interrompono le nostre chiacchiere e la portano via.

Nel frattempo Didier, il cameraman, ha finito il suo lavoro e viene verso di me credo attratto dalla mia fotocamera, scambiamo qualche parola in francese e ci salutiamo.

Decido di andar via anch’io, c’è ancora la curiosità per Impossibles nella mia testa. Riprendo lo scooter e riparto, sotto il solito sole bollente e appiccicoso, questa volta ho gli spiccioli giusti per pagare il parcheggio e vengo accolto con immensi sorrisi. Pensavo di essere arrivato, nulla di più sbagliato. Una cinquantina di metri camminando tra la sterpaglia e poi inizia una discesa di scale che portano a passaggi strettissimi, poi scalette portano ad altri passaggi ed infine arrivo sul posto. Una sottile striscia di sabbia e poi scogli e pietre, come negli altri spot in queste giornate non c’è mareggiata, quindi poche onde e quindi poco surf, a vederla così sembra che il nome Impossibles sia attribuito più per la difficoltà d’accesso che per le condizioni del mare quando lo spot lavora. Mi siedo su una pietra tondenggiante a fissare l’oceano nella tranquillità del posto semi deserto, la mia attenzione viene poi rapita da un paio di cani randagi che giocano rincorrendosi tra gli scogli e l’acqua.

Tornato alla base per restituire lo scooter, mi incammino verso la caletta li vicino per aspettare il tramonto ma lungo il percorso vengo fermato da uno strano tizio che inizialmente prova a vendermi dei film porno su dvd e successivamente mi propone delle ‘strong medicine’, rifiuto sorridendo, non voglio neppure sapere che roba fosse.

A differenza della sera precedente questa è tranquilla, si va a dormire presto. Verso l’una e mezza il mio sonno viene interrotto da un qualcosa di insolito, quasi extra terrestre, la pioggia! che fino a quel momento non credevo esistesse a questa latitudine. Non c’è energia elettrica in tutta la stradina, i brasiliani sono partiti in mattinata, gli australiani nel tardo pomeriggio e di Toki non c’è traccia, la situazione è ancora più spiazzante, credo di essere l’unica anima qui stanotte. Probabilmente la grande mareggiata prevista per i prossimi giorni sta arrivando, e con un certo impeto, sembra che da un momento all’altro debba portarsi via tutto, alberi, tavolini e sedie qui fuori ed anche l’intera baracca.

 

La stanzetta ha retto al diluvio notturno, Made è venuto a prendermi puntuale. Saluto Moang, la ragazza dell’home stay, e si parte alla volta di Ubud, più a nord. Sostiamo a Sanur e riprendiamo la marcia, è domenica e le strade sono un po’ meno trafficate, ma non mancano gli episodi a rischio. Gli ultimi chilometri di strada sono immersi nella vegetazione, in meno di due ore siamo arrivati, lo ringrazio e ci salutiamo.

Da Monkey Forest Road, la via principale, vengo avvicinato da un ragazzo che insiste per accompagnarmi a vedere una camera, poco distante, accetto senza problemi o preoccupazioni. Entrando si attraversa un piccolo giardino ben curato, due rampe di scale e mi ritrovo in questo stanzotto, quattro metri per quattro, due letti stilosi e di buona fattura, tutto intorno finestroni che affacciano sul giardino, bagno con doccia e vasca e soprattutto acqua calda, un ventilatore ed il prezzo anche qui trattabile, decido di fermarmi.

Mi do una rinfrescata ed esco, dieci minuti di cammino per giungere davanti all’ingresso del santuario delle scimmie, nella foresta, appunto Monkey Forest Sanctuary. Proprio sotto l’enorme cartello che chiede di non dare da mangiare a scimmie e macachi c’è un banchetto con una signora addetta alla vendita di piccole banane, a suo dire, amate dai simpatici cugini pelosi dell’uomo. 

Appena entrato lo scenario è particolare, alberi alti che, lungo il sentiero, coprono il cielo unendosi ed intrecciandosi, scimmiette e macachi ovunque, una squadriglia di turisti giapponesi che scaricano migliaia di flash, a contrastarli un’altra squadra di russi, anche loro attrezzati di tutto punto. Proseguo nel mio giro seguendo i sentieri che si inoltrano nella vegetazione fitta della giungla, ogni tanto noto qualche assalto da parte dei macachi ai turisti sprovveduti che passeggiando con del cibo in mano. All’interno del santuario ci sono ben tre templi sacri, quello dei Morti è caratterizzato da alcune statuette che raffigurano delle Rangda, dei demoni regina, che divorano i bambini, una visione abbastanza sconcertante. Percorro poi un altro sentiero che porta giù fino ad un fiumiciattolo, i colori delle rocce e dell’acqua sono incredibili, sembrano quasi creati con un qualche programma di foto ritocco. Andando verso l’uscita trovo altre decine di macachi, alcuni in attesa di qualche zainetto da saccheggiare, altri che oziano beatamente, altri ancora che si spulciano a vicenda o amoreggiano.

Terminata la mia visita decido di spedire un paio di cartoline e per farlo perdo circa mezz’ora per trovare un ufficio postale, quando poi, tornando indietro, mi accorgo che avevo un ufficio autorizzato proprio di fianco al bungalow. 

Per pranzo mi concedo il lusso di provare il Lotus Lane, uno dei più nominati e cari ristoranti della città, quando dico caro intendo dire pagare qualcosa come nove euro per un pasto completo. L’ambientazione è molto ricercata e caratteristica, il cibo è buono e le portate sono presentate con cura, il servizio molto attento ed inoltre, c’è la connessione wifi a disposizione, ne approfitto per inviare notizie a casa.

Trascorro il pomeriggio curiosando tra le numerose gallerie d’arte e imboccando stradine a caso volgendo lo sguardo verso ogni cosa che possa attirare la mia attenzione, dalle abitazioni ai negozi che vendono mobili di legno decorati a mano. Mi imbatto poi in un piccolo garage con all’interno due simpatici ragazzi che stanno lavorando su una vespa anni ’60, mi spiegano che ne preparano molte per il mercato europeo, quella in particolare, una 150 del 1964, avrebbero dovuto spedirla in Belgio e la 150 del 1967 di fianco era destinata alla Germania. 

Andando a cena noto sul menù che hanno la birra Storm, una delle mie preferite, peccato che la mia felicità svanisca poco dopo quando mi viene portata un’acquosa birra balinese mi accorgo che non è la stessa doppio malto  inglese che mi aspettavo. Durante la mia abbondante cena da tre portate decido di provare comunque tutte e tre le qualità di questa birra locale, quindi dopo la bionda ordino una Iron Stout, scura come la Guinness ma più dolce, ed infine una Bronze Ale, che all’apparenza può sembrare una birra rossa ma in realtà è solo una birra leggera e aromatizzata alla frutta.

La notte a Ubud, salvo un paio di sveglie causate da versi di animali posati sul tetto, è andata come previsto, i letti oltre che belli erano anche comodi, e mi sveglio molto riposato, sono pronto per andare verso la stazione degli autobus Perama. Biglietto per Padangbai, sulla costa orientale, mezz’ora d’attesa e si parte verso le strette strade contornate prima di risaie, poi di vegetazione fitta, poi nuovamente risaie e negozietti, il colore predominante è sempre il verde chiaro. Arrivato nella cittadina c’è molta confusione, una sorta di mercato rumoroso, decido allora di comprare subito un biglietto per la prossima barca che parte per Gili Air. Un autobus della stessa compagnia porta me e una quarantina di persone al piccolo molo, dove sono ormeggiate le barche dei pescatori. Una lancia lunga circa sei metri si occupa di caricare i bagagli ed un’altra si occupa di noi passeggeri, poco più a largo si trova una barca di legno lunga circa venti metri per sei di larghezza, un po’ datata, che svolge il servizio verso le isole Gili.

 

I primi minuti di navigazione li passo leggendo, poi la mia attenzione si fissa sull’oceano e sui suoi movimenti e respiri, un blu veramente intenso, scuro e pulito. Cullato dal moto delle onde prendo sonno, al mio risveglio i sedili davanti a me sono occupati da una coppia, lui seduto e lei semisdraiata, al mio fianco una ragazza, la mia attenzione torna sull’oceano. Sulla sinistra le coste di Bali orientali non sono più visibili, siamo in mare aperto e si sente, la barda inizia a inclinarsi da una parte all’altra. Chiudo il finestrino per evitare schizzi d’acqua, fuori arriva prima un’onda, poi una seconda, più alta e potente, il finestrino davanti a me viene frantumato in un istante, io sono completamente fradicio così come la ragazza al mio fianco, i ragazzi seduti davanti invece sono investiti in pieno dai frammenti di plastica del finestrino e rimediano qualche taglio ma niente di grave, qualche frammento arriva anche su di me, ma senza conseguenze. Veniamo fatti spostare sull’altro lato della barca, la mia preoccupazione principale era rivolta alla fotocamera che, stranamente, seppure coperta d’acqua non ha riportato danni. La traversata continua e la barca non finisce di dondolare, da un lato e poi dall’altro, la situazione si tranquillizza verso il tramonto, quando si intravede la terra ferma. Siamo in prossimità di Gili Trawangan, la prima delle tre isolette, la più grande e festaiola. Una lancia si accosta alla nostra barca ed alcuni dei passeggeri effettuano il trasbordo. La stessa operazione viene ripetuta pochi minuti dopo in prossimità della sonnolenta Gili Meno ed infine per Gili Air, la più vicina alla costa di Lombok. Durante il percorso sulla lancia arrivano un sacco di schizzi d’acqua, si sbarca sulla sabbia, è buio e le mie scarpe inzuppate si impanano con la sabbia. Al posto degli scooter qui i ragazzi che ti chiedono se hai bisogno di transport sono muniti di un carrettino a due ruote trainato da un cavallo. Mi incammino lungo la stradina che costeggia l’isola, vengo accolto da diverse persone che si presentano sorridendo con un ‘welcome in Giri Air’ e ti propongono i loro bungalow. Uno di loro, Awan, ha la faccia particolarmente simpatica e decido di seguirlo, mi fa luce con la sua torcia elettrica e ci addentriamo per un centinaio di metri verso l’interno. Nusa Tiga è un nome che non mi è nuovo, infatti è citato sulla Lonely Planet, il mio bungalow è una struttura in legno rialzata da terra, con il tetto di palme, un letto largo e basso, un tavolino. Quando chiedo del bagno il mio nuovo amico mi sorride, apre una porta opposta a quella d’ingresso ed ecco il mio bagno, una struttura di legno collegata alla stanza principale dove ci sono un lavandino di pietra quadrato, una water ed uno spazio per la doccia, non c’è il tetto e si gode di una fantastica vista sul cielo stellato e sulla luna che fa capolino nascosta dalle alte sagome delle palme , l’acqua fresh è garantita ventiquattro ore su ventiquattro, il prezzo è di poco superiore ai tre euro e comprende la colazione, decido di fermarmi.

Sono in viaggio da una settimana esatta, è l’otto settembre, mentre indosso il costume da bagno dispongo sul tavolino basso il passaporto, i soldi, il biglietto aereo per il ritorno, la patente, la guida e tutto il contenuto dello zainetto, inzuppato, ad asciugare sotto il ventilatore che funziona quando ne ha voglia. Il mio iPod Nano sembra aver accusato il colpo, inizia a manifestare funzionamenti anomali. La barca della speranza aveva qualcosa di buono, la cena a buffet poco prima dello sbarco, quindi non ho bisogno di uscire per cercare un posto dove cenare, posso stare sul terrazzino all’ingresso del bungalow a rilassarmi e leggere, con le stelle e le palme che mi fanno compagnia.

Vengo svegliato prestissimo da un acuto chicchirichi, esco sul terrazzino e noto con sorpresa che il mio bungalow si è trasformato nella vecchia fattoria, le stradine che uniscono una capanna all’altra sono popolate da galline e polletti, qualche bue ozioso ed un paio di cani che si rincorrono schivando le piante di fichi d’India. La colazione è compresa, mi viene portato un enorme pancake con dentro dei pezzi d’ananas appena tagliato ed una tazza di tea, inizio la giornata con il sorriso. La cartina che ho sulla guida mostra una strada che costeggia tutta l’isola, vado verso il mare e decido di percorrerla in senso antiorario. Il clima è davvero rilassato, seguo un po’ la stradina ed un po’ la spiaggia, c’è poca differenza. La vita è semplice, non ci sono veicoli a motore, qualche carrettino a cavallo e qualche bicicletta, il mare è di un azzurro chiaro, il cielo è limpido e si vede bene la vicina Lombok. Ci sono strutture modeste come la mia e qualcuna un po’ più curata, con i mattoni al posto del legno e addirittura la piscina. Sosto presso il Legend Reggae o Legend Pub, a sorseggiare una bibita, sono già a nord dell’isoletta, mi rendo conto di quanto sia piccola. Mi sono accorto di avere sugli stinchi e sul braccio sinistro delle bolle, credo dovute al sole violento dei giorni passati, nulla di non risolvibile con un po’ di crema.

Scendendo lungo la parte ovest dell’isola non incontro nessuno, sono solo a camminare sulla sabbia, alla mia sinistra le palme alla mia destra il mare e la figura in lontananza di Gili Meno, poco dopo ritrovo il molo, che indica che il giro è completo. 

Nel pomeriggio passo un po’ di tempo con Awan che mi chiede la traduzione di alcune canzoni italiane, poi esco di nuovo ed incontro un ragazzo che avevo intravisto la sera prima al molo. Mi chiede se voglio dell’erba, gli dico che non fumo, poi andiamo insieme sulla parte ovest dell’isola, vicino al Lucky’s e con altri suoi amici ci godiamo un tramonto pazzesco. Il sole è sempre rosso infuocato come gli altri giorni, ma questa volta gioca nascondendosi tra le sagome del profilo di Bali, facendone risaltare le forme, tutto assume una colorazione dorata per qualche minuto, poi il buio totale, e sono appena le sei di pomeriggio. Saluto i ragazzi e torno verso l’altra costa dell’isoletta. Decido di cenare allo Zippy’s bar comodamente sdraiato sotto alcune strutture simili a dei lettoni sulla spiaggia, semi coperti da una sorta di capannina.

La sera seguente mi ritroverò a Padangbai, era destino che passassi una notte qui. Che dire, rispetto al giorno in cui mi imbarcai per Gili Air, stasera l’aria è fresca, tranquilla e piacevole, nulla a che vedere con il caos e l’affollamento di qualche giorno fa. Ma andiamo con ordine, ricapitoliamo tutto ciò che mi ha portato fin qui.

 

Iniziamo dalla sveglia a Gili Air, se te la chiedo alle otto del mattino, non capisco perché alle sette e quindici sei già fuori dalla porta della mia capanna a bussare e gridare, soprattutto contando che tra il canto dei galli e le chiacchiere delle galline avrò dormito si e no tre ore. Controllo con Awan, ed effettivamente è troppo presto. Non riesco a riprendere sonno, pago e percorro con calma i cento metri che mi separano dal molo. Trovo una biondina svizzera, anche lei svegliata in anticipo, scambiamo due parole e poi ci salutiamo, la sua barca è arrivata. Arriva anche la mia, ma non si avvicina al molo, mi tocca quindi inzupparmi di nuovo le scarpe per fare due passi in mare e salire a bordo, ma vabbè, ormai questo paio di scarpe è compromesso quindi non è un problema. In mezz’ora circa siamo a Bangsal, porto situato a nord ovest dell’isola di Lombok. Devo purtroppo dare ragione alla guida quando afferma che appena sbarcati tutti si buttano sui bagagli, ho dovuto bloccare al volo un tipetto che aveva preso il mio zaino con la scusa che mi avrebbe trasportato con il suo carretto, sono stato stranamente gentile dicendogli che preferivo camminare, a Torino probabilmente lo avrei malmenato. In fondo c’è da camminare solo duecento metri, e sono in compagnia di tre ragazze tedesche molto carine, arriviamo al Bunga Bunga Cafè, da dove partono gli autobus. Io aspetto quello per Mataram, da dove avrei poi dovuto noleggiare una jeep o trovare un mezzo valido per recarmi a sud. Cambio idea quando una ragazza molto carina mi chiede di condividere una corsa in taxi, ma purtroppo andava da tutt’altra parte ed inoltre un amico del tassista in moto l’ha quasi rapita. Poco dopo arriva un furgoncino da nove posti, si parte. Tra curve strette e ripide discese affrontate con la maestria di uno che sembra non aver mai guidato arriviamo a Sanggigi. Uno dei passeggeri scende e al suo posto dovrebbero salire due signori francesi sulla sessantina, peccato non ci sia posto, iniziano a discutere animatamente. Arriva un altro bemo, veniamo distribuiti tra i due mezzi e otteniamo qualche centimetro di spazio vitale in più. Ancora curve e strade disastrate ed arriviamo a Mataram, o per lo meno penso che lo fosse. La coppia di giapponesi viene portata via con un auto, i francesi continuano a discutere inferociti e dopo un po’ salgono su un’altra auto ed io, resto li, abbandonato come uno stronzo che chiede dove si trovi il ‘Mataram Mall’ anche se sinceramente non sapevo cosa fosse di preciso, ma la parola Mall mi dava una certa sicurezza di trovarvi un centro commerciale o qualcosa del genere. Nel frattempo chiedo qualche informazione su Desert Point, la mia destinazione ideale su quest’isola. Ero già al corrente che non fossero presenti strutture dove dormire e che montare una tenda sarebbe stato rischioso a causa delle zanzare porta malaria, la soluzione consigliatami era di noleggiare una jeep e comprare una tenda anti zanzare con cui isolare il mezzo. Ad un certo punto chiedo nuovamente quando sarei riuscito ad arrivare a destinazione visto che ero davvero rimasto l’ultimo e non c’era traccia di auto o furgoni. Mi viene indicato di salire su uno scooter, il capellone si scusa per il disguido e mi accompagna lui fino al Mataram Mall.

Giro un po’ tra le banche per cambiare qualche euro visto che avrei dovuto fare un po’ di spesa da caricare sull’auto prima di partire. L’unica banca che ha un ufficio cambio offre tassi di cambio a dir poco disonesti, al limite della legalità. La mia pazienza inizia a disgregarsi, dopo aver chiesto a diversi autonoleggi, ufficiali e non, i prezzi sono spropositati e salgono ancora di più quando pronuncio il nome della mia meta. Un tassista mi propone un passaggio fino li, ma non è una soluzione fattibile, visto che appunto una volta arrivato a Desert Point non avrei trovato un posto dove stare, sono da capo. Entro nel mall per trovare qualcosa da mangiare, visto che i locali sono quasi tutti chiusi o comunque offrono poche alternative essendo in periodo di Ramadan. Mentre mangio un po’ di riso e navigo su internet mi tornano alla mente i discorsi di qualche giorno prima a Padang Padang, in cui Heitor e gli altri ragazzi brasiliani continuavano da una parte a citare le famose onde di Desert Point ma dall’altra insistevano pesantemente sul rischio di malaria e di altre malattie portate da queste aggressive zanzare. Sempre all’interno del mall ho modo di notare che, nonostante il costo della vita bassissimo per i nostri canoni, i prezzi degli articoli tecnologici come fotocamere o iPod sono di poco inferiori ai nostri. Inizio ad abbandonare l’idea di Desert Point, ci sono troppe cose che fino a questo momento hanno remato contro, mi documento allora su altre destinazioni interessanti su quest’isola e trovo Kuta, omonima della città di Bali. Ci sono ottime onde da surf, non è cara e sembra interessante. Poi leggo bene le note sulla guida, per raggiungere le onde, molto oltre la barriera corallina, ci si deve far portare in barca, ed io già sto avendo problemi a noleggiare un auto, figuriamoci trovare un passaggio in barca. Lo prendo come un ultimo segno, me ne torno a Bali, in fondo sono qui per rilassarmi e fare un po’ di surf, e non ho a disposizione tantissimo tempo.

Trovo un taxi per la stazione degli autobus, gli chiedo quando viene la corsa approssimativamente, mi viene risposto intorno alle 25000 Rupie, un paio di euro, accetto, anche perché è da due ore che cammino con lo zaino in spalla sotto il sole. Arriviamo alla stazione degli autobus, il tassametro segna 20725, pago con 25000 e si rifiuta di darmi il resto. Sono al corrente che si tratta di pochi centesimi, ma per principio non accetto e non capisco perché se ti ho chiesto quando veniva indicativamente tu lo debba interpretare come un “va bene ti do quella cifra”. Lo saluto con un bel vaffanculo in un inglese degno di un rapper americano e con quei pochi grammi di pazienza che mi restano cerco l’autobus per Lembar, il porto a sud da dove partono i traghetti per Bali. Anche qui vengo accolto da diversi personaggi più o meno loschi che mi chiedono dove voglio andare, ne trovo uno che dice di accompagnarmi al Public Bus, l’autobus pubblico appunto, ed inizia il divertimento. Mi porta da un tizio che stava per partire con un mini furgone giapponese, una sorta di Piaggio Porter con dietro la moglie con le buste della spesa sui sedili. Mi chiede 10000 Rupie in luogo delle 20000 chieste dall’accompagnatore, capisco che anche il ragazzo che m’ha accompagnato deve mangiare e siccome era simpatico accetto di pagare 20000, dandone metà a lui e metà all’autista. Gli faccio però notare che ‘this is not public’ (questo non è un trasporto pubblico!) e lui indicando la moglie pronuncia, in inglese stentato, ‘she is public’ come per dirmi che lei fa parte del pubblico, vabbè, ormai sono in ballo. La tratta è di appena venticinque chilometri, ma impiegheremo più di un’ora. Lungo la strada si ferma a caricare altre persone e si occupa di accompagnarle ad una ad una a casa. Viene la volta della ragazzina uscita da scuola che abita in una zona, poi due signore con le borse della spesa, ed infine accortosi che la benzina sta per finire si precipita giù a comprare un paio di bottiglie di Absolut Petrol. Riprendiamo la marcia, accompagna la moglie in una periferia tra le campagne dove sorgono una decina di baracche e per terra ci sono rifiuti e pneumatici che bruciano, in cui ammetto che ho provato un po’ di timore, ed infine si torna sulla strada principale per arrivare al porto. La zona portuale di Lembar appare losca, così come il primo tipo che mi si presenta davanti, gli dico di lasciar perdere che non è giornata e mi dirigo in biglietteria. Un’ultima sorpresa, il prezzo del traghetto è aumentato, ma va bene, è la mia ultima fatica. Si ripresenta il tipo losco chiedendomi dei soldi per comprarsi le sigarette, mi esce una sola parola, in italiano chiaro e deciso “SPARISCI”, non credo avesse mai studiato la mia lingua ma si merita un voto alto per la comprensione, si è dileguato all’istante.

Salgo sul traghetto, un grosso barcone fetiscente, enorme rispetto alla barchetta Perama di qualche giorno fa. Una volta in mare aperto subisce anche lui la potenza dell’oceano, l’uomo può costruire barche grosse quanto vuole, ma l’oceano con la sua forza e maestosità saranno sempre superiori. Si viaggia molto più sicuri ed il prezzo del biglietto è circa otto nove volte più economico rispetto alla barca della speranza. Sul Bali Post si parla di Valentino Rossi, di Kakà e degli Oasisi. Il tempo di navigazione previsto varia dalle tre alle cinque ore a seconda delle condizioni del mare, mi rilasso guardando il mare e riprendo in mano la guida per capire cosa fare dopo e trovo due soluzioni, se gli uffici Perama sono ancora aperti prenderò il bus diretto per Kuta altrimenti passerò una notte a Padangbai per riposare e riprenderò il viaggio il giorno seguente.

Il traghetto entra nel porto alle 18.20 ma riusciamo a sbarcare solo un’ora dopo, alle 19.20, probabilmente le manovre d’attracco le avranno eseguite dei sub spostando a mano l’enorme barca. Non mi preoccupo, dovrei essere comunque in anticipo, ed invece no, ufficio Perama chiuso. Subito di fianco si trova l’hotel Madya, non è un granché ma costa poco e devo passarci una sola notte, quindi è perfetto. L’unico problema è che in tasca mi sono rimaste pochissime rupie e le banche e gli uffici cambio sono ovviamente chiusi. Mi basta camminare qualche metro per trovare un cambio sul lungomare e sono sorpreso nel trovare anche un tasso conveniente.

Mi posso finalmente rilassare,  vado a cena presso il Padangbai Cafè, dove ad accogliermi c’è un signore molto simpatico e gentile, i prezzi sono convenienti e la qualità è buona. Soddisfatto torno verso l’albergo, ma mi fermo prima allo Zen Inn e ritrovo la ragazza carina che mezz’ora prima mi aveva salutato. Ordino una birretta e ci faccio due chiacchiere, poi si unisce a noi un suo amico ed iniziamo a parlare di rock inglese e di britpop. Torno finalmente in albergo dopo la lunga giornata, accendo l’iBook e metto un po’ di musica e mi rilasso sul letto. Non ho voluto continuare seguendo l’itinerario che avevo in mente ma non lo vedo come un problema, in fondo sono in vacanza, non ho motivo di rischiare.

 

Mi sveglio verso le otto dopo un sonno rigenerante, su Padangbai cade una leggera pioggia. Torno allo Zen Inn per lasciare un paio di monetine europee alla ragazza della sera prima, perché diceva che doveva farne degli anelli. L’ufficio Perama è aperto e l’autobus parte qualche minuto dopo, nel frattempo la strada che da sul molo inizia a popolarsi delle bancarelle del mercato. Sul bus conosco una coppia di signori sulla cinquantina, vengono da Padova, è piacevole riascoltare la propria lingua. Sosta di circa venti minuti a Ubud, poi si riprende la strada verso Sanur e altre cittadine, continua a piovere.

Legian Street, riconosco il surf shop della Rip Curl e chiedo all’autista se può farmi scendere li, sorride e accosta, saluto lui e i connazionali e mi avvio al Sayang, l’alberghetto dei primi giorni. Passerò poi il pomeriggio a sistemare faccende come la lavanderia, l’invio di informazioni a casa e altre piccole commissioni. Incappo in una piccola truffa sul cambio ma me ne accorgo in tempo e vengo rimborsato, il trucco della calcolatrice modificata è vecchio. 

Il giorno seguente l’oceano non regala buone onde per surfare, ma va bene per nuotare un po’ e rilassarsi in spiaggia, aspettando il tramonto. Scopro poi l’Henay Cafè, un posto molto semplice in una delle innumerevoli stradine che si articolano nei pressi di Poppies Gang II, dove si mangia bene spendendo poco.

Dopo una serata tranquilla con un paio di birre all’Apache Reggae mi sveglio finalmente presto e vado in spiaggia, questa volta le onde ci sono. Noleggio una tavola e mi viene data una 6’3″ azzurra con una grafica abbastanza metallara composta da teschi ed ossa, faccio un po’ di riscaldamento, indosso la lycra e mi fiondo in acqua. Prendo qualche frullata poi finalmente inizio a capire come funziona ed inizio a divertirmi e sentirmi davvero bene. Le onde sono costanti, un metro e mezzo circa, è divertente e dopo un po’ diventa anche facile, capisco come muovermi, da dove rientrare e da dove iniziare a remare. Esco dall’acqua dopo circa tre ore, per la felicità dei ragazzi del noleggio ai quali avevo lasciato il mio zainetto in custodia e che vedendomi contento mi chiedono sorridendo com’era andata.

Tre ore in acqua per me che non sono abituato ed allenato hanno richiesto un dispendio di energie enorme, attraverso la strada ancora impregnato d’acqua, i piedi nudi sull’asfalto non soffrono perché sono impanati di sabbia, mi accomodo presso il Borneo8, uno degli stand del Seaview food center ed ordino un enorme piatto di noodles con i gamberi ed una birra grande per festeggiare. Con la pancia piena di cibo ed il cuore pieno di soddisfazione torno in spiaggia ad oziare al sole.

Merenda pomeridiana al Boo Boo’s per controllare le e-mail e poi un’apparizione, un angelo. Ero appena uscito dal locale per tornare in albergo quando incrocio gli occhioni blu di una ragazza bassina, bionda, anche lei con una tavola da surf sottobraccio come la sirena di Ulu Watu. Mi sorride e saluta, ricambio e a momenti sbatto la faccia contro un palo per quanto fossi distratto dalla sua visione, lo evito all’ultimo. 

Un’altra serata tranquilla ascoltando musica dal vivo all’Espresso Bar ed il giorno seguente sono di nuovo sveglio in orario. Arrivo in spiaggia, ritrovo gli stessi ragazzi del giorno prima ma non hanno la ‘mia’ tavola, me ne danno un’altra, simile, un pelo più lunga e panciuta, più facile quindi. Passo in acqua circa un’ora, mi diverto a giocare con le onde ma arriva presto la stanchezza, sento i muscoli che ogni tanto non rispondono come dovrebbero, decido di uscire. Mi rilasso in spiaggia e poi torno verso l’albergo, mi cambio e decido di noleggiare uno scooter per dirigermi verso il Pura Tanah Lot, uno dei templi più famosi, anche perché nell’aria continuano ad esserci i suoni ed i canti delle preghiere e quindi è impossibile riposare. 

Sbaglio un paio di strade, chiedo indicazioni e mi oriento confrontando i cartelli stradali con la cartina sulla guida e riesco ad arrivare. La prima vista è mozzafiato, la forma e la posizione del tempio in balia dell’oceano è qualcosa di magico. Purtroppo però la guida anche questa volta ha ragione, si tratta di una mezza ricostruzione, una sorta di set cinematografico ben architettato per attirare i turisti. L’accesso è consentito però ai soli balinesi i quali riescono ad accedervi solo con la bassa marea, visto che il piccolo sentiero viene coperto d’acqua con l’alta marea. Visito i dintorni camminando tra le scogliere e sulle colline, il pranzo, simile a quello degli stand del food center, mi costa il doppio, ma c’è da ammettere che sono seduto su una terrazza affacciata sull’oceano con il tempio in bella vista. Torno verso le colline ed arriva un’altra brutta sorpresa, mi trovo su un sentiero fatto bene, fin troppo curato, poco dopo mi supera un carrettino elettrico, mi trovo nel bel mezzo di un campo da golf! fino a che punto arriva la voglia di denaro dell’uomo per costruire un resort ed un campo da golf proprio in un posto del genere che dovrebbe essere un minimo legato alla spiritualità, alla tradizione e alla contemplazione. Certo posso capire che per i ricconi di turno farsi diciotto buche con in sfondo l’oceano ed il tempio sia uno spettacolo ma a me sembra solo un controsenso. Visito poi la parte opposta, dove camminando sulla scogliera si ha un’altra visuale del tempio. Tornare a Kuta è un’impresa che richiede alte doti di guida di paese, senza regole, senza paura spingo il mio Yamaha (senza freni e molto meno performante dell’Honda che guidavo a Padang Padang) lungo la trafficata strada che passa in mezzo alle risaie e poi nel traffico della Legian Street. 

Come in ogni esperienza all’estero, anche questa volta arriva il momento di tentare l’esperimento, provare a mangiare in un ristorante italiano. Con enorme stupore va tutto bene, anzi alla grande! avevo scelto il ristorante Roma Amor, e non me ne sono pentito, merito anche del fatto che sia gestito da un ragazzo di Roma, le tagliatelle al ragù erano realmente tagliatelle al ragù.

Arriva il quindici settembre, l’alberghetto dove risiedo è al completo e mi tocca trovare un’altra sistemazione. Faccio colazione con un banana pancake, pago, saluto, mi carico lo zaino in spalla ed inizio a camminare. La zona è piena di strutture di ogni tipo e per ogni tasca, c’è addirittura l’Hard Rock Hotel se si vogliono buttare duecento dollari a notte o forse più. Trovo sistemazione sulla Legian St. a pochi passi dall’Espresso Bar e di conseguenza molto più vicino all’oceano, il Prawita sottotitolato The Hotel with Hearth è una struttura molto carina. Nel giardino, oltre alla piscina, c’è una serie di canali d’acqua che contornano le strutture, guardando bene vedo dei grossi pesci bianchi e altri arancioni che vi nuotano. Nonostante la posizione sulla via trafficata le camere sono interne e non si percepisce il minimo rumore, sistemato lo zaino vado in spiaggia e mi butto un’oretta in acqua, c’erano pochi ragazzi che le noleggiavano e quindi mi sono accontentato di ciò che ho trovato, una 7’4″ tutta sgangherata, una sorta di canoa viste le dimensioni. 

Incontro poi un ragazzo inglese che il giorno dopo sarebbe dovuto partire e quindi frettoloso di vendere la sua tavola, una 6’3″ australiana usata il giusto. Il prezzo è interessante, ma siccome da li a qualche giorno sarei dovuto partire anch’io non volevo trovarmi poi nella sua stessa situazione e perderci dei soldi. Lo saluto, vado a pranzo, e poi lo ritrovo su Poppies Gang II, ancora con la tavola da vendere. Ci salutiamo, mi fa un nuovo prezzo ancora più basso (intorno ai cento euro) ed allora corro da Boo Boo’s e mi connetto ad internet, non trovo Sabrina ma trovo Riki che dopo un paio di telefonate mi comunica che con il mio biglietto aereo per il ritorno ho diritto ad imbarcare gratis la tavola. Lo ringrazio e saluto e torno in strada con la speranza di ritrovarlo, ma niente da fare, in quel quarto d’ora lui e la tavola si sono dileguati. Provo a cercarlo sulla spiaggia ma anche qui non lo trovo, in compenso rivedo la morettina con il piercing sotto il labbro che avevo visto in mattinata. Con la scusa di chiedere informazioni sull’inglese le offro poi una Bintang e guardiamo insieme il tramonto seduti sulla spiaggia. Si chiama Julia, è australiana ed ovviamente fa surf, si trova in vacanza con un gruppo di amici che, poco dopo passano a recuperarla. 

Qualche ora più tardi ritrovo lei e l’allegro gruppetto all’Espresso Bar, impegnati in prove estreme di karaoke, mi unisco a loro sulle note di I bet that you look good on the dancefloor degli Arctic Monkeys. Verso mezzanotte vogliono continuare la serata al Bounty, la discoteca poco più avanti, Julia ed una sua amica invece vanno a dormire. Visto che il mattino seguente avrei voluto svegliarmi presto declino l’invito del gruppo e resto all’Espresso a finire la mia birra.

Tempo di salutare loro e girarmi a verso la band mi si avvicina una ragazza bassina, si chiama Leia e dice di venire dall’isola di Java, decido allora di ordinare un’altra birra e le chiedo se vuole qualcosa, si fa offrire una bottiglietta d’acqua. Stranamente parla un buon inglese ma dopo pochi minuti che parliamo noto che mi guarda in modo strano e poco dopo mi sussurra che le piaccio molto. Ok, d’accordo, sarà il fascino dello straniero, chiacchieriamo ancora un po’ e piazza un altro complimento, io sono sempre più stranito ma vabbè, si vede che è la serata fortunata. Una volta terminata la birra le chiedo se vuole venire in spiaggia a dare un’occhiata al Full Moon Party e mi risponde in un tono seccato dicendo che non ha tempo da perdere. La situazione si fa un po’ più chiara nella mia testa e le chiedo cosa intendeva con quella frase, ottengo la risposta che se volevo potevo portarla in albergo e fare tutto ciò che avrei desiderato per una somma di rupie pari ad una ventina di euro ma che non aveva tempo da perdere in parole, feste sulla spiaggia e luna piena. Ok, adesso la situazione mi era chiara al cento per cento, la piccola, carina e mediamente istruita ragazzetta di Java era in realtà una prostituta. Declino ovviamente l’offerta perché contrario alla prostituzione e mi scuso per averle fatto perdere tempo, ci salutiamo. La vedrò un paio di minuti dopo andar via con un ragazzo giapponese contentissimo. Prima di andare a dormire faccio un salto in spiaggia, non c’era nessuna festa per la luna piena, me ne sto un po’ sulla sabbia umida a guardare l’oceano ed il mare e poi scoppio a ridere da solo pensando a cosa mi era appena accaduto. 

Carico come non mai il giorno dopo mi sveglio ancora ridendo, colazione a base di frutta, punk rock nelle cuffie e mi avvio in spiaggia. Incontro Alex, Jimmy e Bambang, i ragazzi del noleggio tavole, ma anche questa volta non hanno la mia tavola preferita. Le onde non sono male e c’è molta gente in acqua, l’unica tavola un po’ maneggevole che hanno è una 7’0″ le altre sono tutte più grosse. Solite procedure, lascio lo zaino, riscaldamento, lycra e dentro, di corsa!

Prendo le solite due frullate che sono solito prendere appena entro e poi mi attivo, inizio a remare con energia e voglia, mi alzo e mi godo una bella destra fino in fondo. Continuo a divertirmi e giocare con le onde per un po’, credo un’oretta, finché non arriva lei. Un metro e mezzo circa, lievemente più veloce delle altre, inizio a remarla, mi alzo veloce e sono su! la mia soddisfazione dura pochi istanti, perché l’onda decide di chiudere all’improvviso e con violenza. Finisco in acqua, d’istinto mi proteggo la testa con le braccia, avverto un colpo allo sterno, resto tranquillo e dopo qualche interminabile secondo ritorno in superficie. D’istinto tiro a me il leash ma mi viene in contro solo una parte di tavola, il resto stava andando a riva per i fatti suoi. Mi tocca nuotare e non poco visto che sono abbastanza dentro. Arrivo in spiaggia, ritrovo il pezzo di tavola mancante e, togliendo la lycra, mi accorgo di avere dei graffi sotto il petto, causati probabilmente dalle pinnette della tavola. Raggiungo i ragazzi del noleggio e gli restituisco i due pezzi di tavola spiegandogli cos’è successo. Alex mi accompagna in scooter in farmacia a comprare un medicamento simile al mercurio cromo, tornati in spiaggia parlo con il loro boss, ci accordiamo per settanta euro. Mi fermo poi a chiacchierare con loro, Jimmi il capellone tatuato pronuncia la frase che da qualche minuto mi girava per la testa, che sono cose che succedono, nel surf come nella vita ci sono giornate buone e giornate meno buone. Resto poi li con loro a bere qualche birra fino al tramonto. Un’altra serata di musica dal vivo prima all’Apache Reggae e poi all’Espresso e mi ritrovo il mattino dopo con i miei nuovi amici. Alex mi porge la ‘mia’ tavola, quella azzurra con cui mi trovavo bene, a titolo gratuito. Entro in acqua il giorno dopo il piccolo incidente, senza problemi, però le condizioni non sono il massimo ed il cielo è grigio, dopo una mezz’ora scarsa esco dall’acqua. Mentre parlavamo del più e del meno Bambang mi chiede se sono vegetariano, rispondo di no, non mangio tantissima carne ma non sono vegetariano, poi chiede qualcosa agli altri due in slang e va via. Un quarto d’ora dopo si ripresenta con dei vassoietti di noodle per tutti, poi si fa portare delle birre dalla signora che le vende sulla spiaggia, beh, buon appetito.

Dedico il pomeriggio alle compere e mi imbatto in una processione, è buffo vedere alcuni dei partecipanti che sopra al sarong indossano magliettine della Billabong piuttosto che occhiali da sole della Oakley, surfisti religiosi tradizionali.

Diciotto settembre duemila e otto, il mio ultimo giorno di vacanza. Sveglia presto, passo a far colazione a base di banana pancake all’Henay (ormai sono diventati una droga), e poi vado in spiaggia dagli altri. Anche oggi l’oceano è triste, poche onde, poca gente in acqua. Entro insieme ad Alex e stiamo in acqua il tempo per fare qualche onda, poi si esce. Nel frattempo la grossa barca a largo della costa continua a pompare sabbia attraverso i grossi tubi che finiscono sulla spiaggia. Bambang è affascinato dalla targhetta nominativa che avevo nello zaino, quella della Best Western, decido allora di regalargliela, lui in cambio mi da una sua foto tessera, che tuttora è appesa su una bacheca di foto in casa mia. Saluto i ragazzi che mi danno appuntamento per la serata e vado a farmi una camminata. Passando per la Legian St. ignoro le solite proposte di massage, transport e massage full, finché non arrivo davanti ad un centro massaggi che da fuori da una sensazione di pulizia. Una volta entrato tutte le ragazze indossano la stessa divisa, mi concedo il primo massaggio indonesiano da quando sono qui, lo consiglia anche la Lonely Planet di non ripartire senza averlo provato. Mi viene presentata Cesi Olivia, o almeno questo è il nome che mi sembra di aver capito, entriamo nel corridoio e mi accomodo sul lettino nello scompartimento. La ragazza minuta e magrolina mi chiede se preferisco un massaggio normal o strong, scelgo il normal. Vengo malmenato con forza dalle piccole ma potentissime mani di Cesi, ma una volta uscito da lì sento ogni singolo muscolo sciolto ed ogni piccola contrazione o dolore risolto, il tutto per circa quattro euro. Per strada volendo si trova anche a meno, è pieno di ragazze e signore che lo fanno in proprio e offrono anche servizi ‘accessori’ ma ho preferito così e mi sono trovato benissimo.

Ceno da Boo Boo’s e saluto la gentile signora che lo gestisce, la quale mi lascia il biglietto da visita e mi chiede di parlare di lei e del suo locale con i miei amici. Vado poi all’appuntamento con Alex, Jimmi e Bambang ed altri loro amici. Giriamo quasi tutti i locali di Legian St. e senza tirar fuori una rupia passiamo una lunga e divertente nottata.

Ultimo giorno, una rapida camminata in spiaggia a salutare i miei amici locals, poi di nuovo in camera a preparare lo zaino per lasciarlo nel deposito della reception fino al primo pomeriggio, quando verrà a prendermi un socio di Made che si è offerto di portarmi in aeroporto gratis.

Si concludono così tre settimane di situazioni, sorrisi, sorprese e colori in compagnia dell’oceano…