O’ahu – Hawaii 1

Ho iniziato a realizzare che stavo andando alle Hawaii quando, arrivato all’aeroporto di Los Angeles, mi ha accolto una rilassatissima hostess con un fiore nei capelli e la guardia di sicurezza, alla vista del mio passaporto, ha iniziato a cantare un improbabile Toto Cotugno. Poche ore dopo ero a bordo di una muscle car americana che guidavo verso Honolulu, Waikiki per la precisione.
Noncurante della stanchezze dei due giorni di viaggio ho lanciato borsa e zaino in hotel e sono subito uscito a esplorare i dintorni, accolto dal caldo, da odori nuovi e finalmente da quel rumore, quello dell’oceano, a due isolati.
La mia prima destinazione è stata la statua dedicata a Duke Kahanamoku, leggendario nuotatore hawaiano che viene riconosciuto come il “padre del surf moderno”, colui che lo esportò dalle Hawaii al resto del mondo. E a proposito di questo, sul volo da Los Angeles a Honolulu ho visto un docufilm a lui dedicato, The Waterman, molto interessante.
Nel pomeriggio incrocio persone di ogni tipo, turisti, surfisti, motociclisti senza casco, poliziotti in divisa impeccabile, qualche senzatetto, per poi giungere al molo dal quale osserverò il mio primo tramonto alle Hawaii, sullo sfondo dei resort che arrivano fino ai bordi della costa. 
Arriva il mio primo incontro con il cibo locale, quel poké che da noi va di moda da qualche anno e che io, in realtà, ho assaggiato una volta sola in Sardegna. Non ho esperienza in merito, mi affido all’addetto che mi da uno dei più tipici. Molto semplice, leggermente piccante, tonno crudo, marinato, con un po’ di alga e qualche spezia su una base di riso tiepido. Niente male come inizio.

Il giorno dopo mi sveglio prestissimo per raggiungere il vicino faro di Diamond Head, l’aria fresca del mattino è tutta un’altra cosa rispetto al clima del giorno prima, per strada è pieno di persone di tutte le età che corrono o vanno in bici. Sono un appassionato di fari e questo è in una posizione scenografica con alle spalle la vetta verde del cono vulcanico e di fronte, ovviamente l’oceano. La mia tappa successiva è proprio il parco nazionale alle spalle del faro, Diamond Head appunto. La camminata è facile, come dirò spesso in questo viaggio, fatta su misura per gli americani. Come imparerò nei giorni a seguire, serve sempre una prenotazione online, che però si può fare pochi istanti prima di entrare. La camminata per arrivare in cima può essere affrontata da un lato più facile e uno leggermente più duro, ma niente di ché, una volta in cima la vista dall’alto permette di osservare quasi tutta l’isola, con i grattacieli da una parte, la natura selvaggia dall’altra, l’oceano tutto intorno.

Torno sulla Charger e proseguo verso la punta est, dove farò un’altra bella escursione passeggiata in salita a Makapu, dove c’è un altro faro, non accessibile però. Mi fermo spesso, non tanto per riposare ma perché la vista cambia continuamente, scoprendo pian piano nuovi lati della meravigliosa costa e della natura selvaggia che la colora. 
La temperatura si fa rovente e mentre torno verso la base mi fermo in un punto a caso sulla costa dove c’è tutto ciò che mi serve: un furgoncino che prepara gli hamburger, la spiaggia, l’oceano e, volendo, anche i servizi igienici. 

Il pomeriggio sarà invece dedicato alla storia, prima a Pearl Harbor, dove è possibile arrivare in battello alla struttura che permette di osservare ciò che rimane della USS Arizona e in seguito nella parte storica di Honolulu, quella dove si trova la residenza dei reali e la statua vestita d’oro di Re Kamehameha, colui che riuscì ad unire tutte le isole sotto un unico dominio.

Anni fa mi dissero che “quanto c’è tanta gente davanti ad un locale, o va di moda o si mangia bene” ma trattandosi di una bakery, una panetteria, poteva essere solo la seconda opzione. Leonard’s Bakery, origini portoghesi, tanta coda sì, ma scorre veloce e finalmente posso provare le malasadas, un tipo di ciambella fritta, ma poco cotta (come dice il nome mal asada). Buonissime, ciccionissime, la carica di energia necessaria ad affrontare l’oretta di guida fino al nord ovest.

Il traffico è intenso ma scorrevole, ordinato e rilassato. La mia prima sosta sarà Haleiwa, tutto un altro clima rispetto a Waikiki, e non intendo il clima metereologico, ma quello dell’ambiente, meno caos, meno gente a zonzo, meno rumore. Sulla spiaggia dorata c’è pochissima gente, solo un paio di surfisti in acqua. 

Poche miglia dopo raggiungo invece Laniakea, ma sono in anticipo sul mio appuntamento ideale e così ne approfitto per una breve e rilassata nuotata nel Pacifico. Non faccio in tempo ad uscire dall’acqua che il costume è già asciutto, risalgo a bordo e proseguo verso quella che è la destinazione per me più importante della giornata, quella che mi ha fatto scegliere di iniziare la mia vacanza da quest’isola. Banzai Pipeline, o più semplicemente Pipeline. Uno degli spot più famosi al mondo ma anche uno dei più letali. Non ci sono le onde del periodo invernale e in acqua non c’è nessuno ma provo una forte emozione appena metto piede sulla sconfinata distesa di sabbia. L’acqua è di un blu verde intenso e, quando faccio alzare il drone, è talmente trasparente che dall’alto si vede bene la piatta barriera corallina. 

Arriva la fame e arriva un altro incontro con la cucina tipica hawaiana. In questo caso il Loco Moco, riso, uova, hamburger e litri di salsa, buono, pesantissimo, non so come facciano a mangiarlo a colazione. Riparto per il ritorno, questa volta dovrei essere in orario con l’appuntamento. A Laniakea ci sono il doppio delle auto e il triplo delle persone che c’erano qualche ora prima, il motivo è semplice, quattro grosse tartarughe sono approdate nella sezione di spiaggia a loro dedicata per riposarsi. La zona è ben delimitata e giustamente, per non disturbarle, non è possibile avvicinarsi più di tanto ma si riescono a vedere bene queste meravigliose creature.

Sono passati diversi anni dall’ultima volta, cammino verso la spiaggia con la lycra di Lanzarote in una mano e una manciata di dollari nell’altra. Qualche minuto più tardi sono sulla spiaggia di Waikiki che faccio un po’ di stretching e con un tavolone da 9 entro in acqua. Subito un leggero fastidio nella zona del petto quando mi sdraio sulla tavola e inizio a nuotare, il mare è relativamente tranquillo e non impiego molto a raggiungere la line-up affollatissima. Sono distrutto, anni passati ad allenare le gambe in bici e a trascurare totalmente la zona alta del corpo si fanno sentire, mi rilasso e osservo la situazione.
Sbaglio tempo sulla prima, vengo frullato sulle successive ma alla fine mi ricordo come si fa e mi alzo in piedi e seguo l’onda per qualche metro. Passerò un’oretta in acqua faticando, ridendo, cadendo, alzandomi più volte e provando anche un po’ a direzionare il tavolone. Uscirò dall’acqua con un sorriso enorme e una felicità totale che annullano ogni stanchezza e dolore muscolare.

Tempo di una doccia bollente e di un panino con bistecca e ritrovo il negozietto visto mentre passavo in auto il giorno prima. Bailey’s Antiques and Aloha Shirts, il negozio di fama mondiale che vende appunto articoli vintage e una sconfinata collezione di camice hawaiane. Da fuori già si vedono le foto di alcuni attori di Hollywood e una volta dentro quelle di Magnum P.I., sia l’originale che quello del remake. Le camicie, centinaia, anzi migliaia, tutte rigorosamente Made in Hawaii sono divise in isole per taglie, ne prendo due, una per me e una da regalare a mio papà. La proprietaria è stata di una gentilezza estrema, mi ringrazia con quella parola che da qualche giorno ho imparato ad amare Mahalo, che più che un grazie esprime proprio gratitudine. La mia la indosso subito mentre vado a riprendere la macchina per le ultime due destinazioni su quest’isola.

Byodo-in hawaiano è la ricostruzione più piccola di quello che si trova in Giappone e che ho visitato quasi una decina di anni fa. Ma prima di raggiungerlo si guida per un paio di miglia all’interno di un enorme Memorial Park, quello che noi chiameremo cimitero è una enorme distesa di erba verde, curata alla perfezione, con tantissime bandiere a stelle e strisce e sul campo le lapidi. 
Quello che rende questo tempio molto bello secondo me non è tanto la sua fattura ma lo sfondo con le montagne verde scuro che lo sovrastano. Le guide consigliano di visitarlo al mattino per avere un meteo migliore ma, secondo me, questa leggera foschia sui monti tipica del pomeriggio aggiunge ancora più fascino.

Lanikai è una spiaggia bellissima, non molto ampia ma lunga, sul mare poco agitato si vedono bene due isole che sporgono e ci sono i ragazzini che si esercitano con le canoe polinesiane, quelle con un grosso bilanciere. Assisto al ribaltamento di una di queste e ai ragazzini che subito lavorano di squadra per girarla, riportarla a riva e svuotarla dell’acqua imbarcata. Sono sincero, più che la spiaggia mi è piaciuto il mucchio di casette basse che ci sono nei due isolati attigui. Di legno, non esagerate, con i cortili con lo spazio per il pick-up e il barbecue.