Messico 2003

il viaggio di cinque amici attraverso il Messico meno conosciuto con una videocamera miniDV ed un paio di fotocamere. Non avevamo smartphone e gps, portavamo con noi un paio di telefoni cellulari spenti, da accendere solo per le emergenze.

Settembre 2003 – estratto da “Del treno e di altri racconti”

I Maya, lo sciamano, il fuoco e i cani (parte 2)

Città del Messico

Esattamente un anno dopo, tra settembre e ottobre del duemilatre era ora di rimettere piede sul territorio messicano. Questa volta ad accompagnarmi c’erano quattro persone con le quali sono cresciuto, dalle scuole elementari e medie alle scorribande in oratorio e infine al nostro storico ritrovo, il giardinetto in Via Martino SPANZOTTI.

All’aeroporto di Torino sono con Lele, Lollo, Guino e Sicce, pronti per decollare verso lo scalo di Amsterdam e successivamente a Città del Messico.

Come al solito nessun programma, solo la prenotazione del volo aereo e delle prime due notti in albergo.

La sosta ad Amsterdam è di quattro ore e ci permette di fare un breve giro tra i coffee shop e di finire, giuro involontariamente, nel quartiere a luci rosse, dove scoppiamo a ridere alla vista della prima corpulenta signora poco vestita dietro una vetrina. Successivamente la merce in esposizione aumenterà il livello di qualità e le nostre reazioni si adegueranno.

Si torna in aeroporto, un breve controllo agli zainetti e siamo in volo verso il Distrito Federal, il nome con cui è chiamata ufficialmente Città del Messico visto che rappresenta la capitale degli Stati Uniti Messicani.

Durante il volo le hostess si trasformano in locandiere medievali che di volta in volta portano ai nostri stretti sedili bottigliette di vino e lattine di birra, e la festa continua per le svariate ore di volo, nuovamente sull’oceano Atlantico.

Accolti da un clima caldo e da un’umidità elevatissima riusciamo a trovare l’albergo prenotato in una delle più estese città del mondo, estesa a tal punto che un tassista che lavora da ben venticinque anni nelle sue strade ci confesserà, nei giorni a seguire, di non conoscerla ancora tutta.

Figuriamoci noi, in soli tre giorni cosa avremmo potuto mai capire, contando anche i postumi del fuso orario che nei primi due giorni ci ha tramutato in vampiri sempre svegli, ma rincoglioniti e assetati di birra invece che di sangue. Assetati al punto di venir fermati da un poliziotto in bicicletta, che con scarsa preparazione fisica ci raggiunge pedalando ed interrompe la nostra rilassata camminata per informarci che non possiamo andare in giro con le bottiglie di birra da un litro in mano, nonostante siano ben nascoste da insospettabili buste di carta modello panetteria. Ci saluterà, ancora a corto di fiato, con un rimprovero paterno. Quella sarà la prima e ultima volta che in Messico verrà applicata questa legge di ispirazione statunitense.

Le strade sono enormi ma nonostante questo gli ingorghi sono all’ordine del giorno in qualsiasi orario, sembra quasi di trovarsi davanti ad una scacchiera nella quale i pedoni sono costituiti dai Maggiolini bianchi e verdi dei tassisti, da qualche auto della polizia guidata dall’alfiere di turno che taglia le corsie in diagonale, le torri rappresentate dagli autoarticolati ed i movimenti del cavallo vengono imitati da qualche ragazzotto con la sua Impala che sembra uscita dai polizieschi girati a Los Angeles, infine si riescono a scorgere i reali, rappresentati da berline di rappresentanza.

Visitiamo il Centro Storico, già addobbato con i colori del Paese in vista della festa dell’Indipendenza e, di tanto in tanto, assistiamo alle prove di vari gruppi di danze tipiche. Proseguendo, arriviamo all’Emiciclo a Juarez e ad altri monumenti ed edifici storici e qualche mercato, ed è già il momento di salire sul nostro primo frigorifero viaggiante. Purtroppo nessuno degli autonoleggi che abbiamo interrogato è disposto a noleggiarci un mezzo di trasporto perché siamo tutti al di sotto dei venticinque anni e perché le nostre carte di credito ricaricabili non sono utili come garanzia, per tanto, ci rassegniamo agli autobus.

Chihuahua

Da Città del Messico a Chihuahua, la capitale del medesimo stato, a nord, ventidue ore sistemati con cura sui sedili dell’autobus, che sembravano i ripiani di una cella frigorifera vista l’aria condizionata gelida. Le nostre poltrone di prima classe erano tutt’altro che pulite e sembravano staccarsi da un momento all’altro.

Uscendo dal Distretto Federale passiamo attraverso un agglomerato di baracche di fortuna che lasciano il posto ad un paesaggio di campagna, verso il tramonto si scorge qualche cactus ed il paesaggio cambia nuovamente le abitazioni sono sempre meno numerose, sparpagliate qua e la in una verde distesa interrotta solo da un altopiano.

Inizia a piovere a dirotto e l’autista, ormai al volante da sette ore circa, continua a sentirsi il dio della velocità ed imperversa con sorpassi che definirli azzardati è poco. Durante la notte, tra le varie soste, veniamo svegliati e ci ritroviamo nel mezzo del deserto, non piove più, lo sbalzo di temperatura appena messo piede giù rischia di ucciderci. Entriamo in un locale con le porte che ricordano un saloon, poca luce all’interno, attiriamo subito l’attenzione di tutti i clienti seduti ai tavoli essendo gli unici visi pallidi. I bagni ricordano un paesaggio post atomico, che non è neanche tanto post considerando le esplosioni che si avvertono ogni tanto. L’autista ed il suo assistente continuano a tirare forti martellate al cambio, il frigo viaggiante fa rifornimento di gasolio, noi cinque di burrito e si riparte, avvolti dal buio della notte attraverso la Sierra Madre.

Il giorno seguente il paesaggio desertico viene interrotto da un po’ di verde e qualche arbusto, a metà mattinata siamo nella città dove sorge il museo Casa de Pancho Villa, dedicato al celebre rivoluzionario, il fuso orario cambia ancora, sul block notes che avevo con me leggo ‘El fuso orario esta matando Talpone’, frase che dedicai spontaneamente ai frequenti micro-sonni di Lollo. Trascorriamo qualche giorno girovagando tra i mercati di artigianato e ammirando le opere dei Tarahumara, la popolazione originaria del luogo, poi ripartiamo verso Creel.

Creel

Esattamente centosettantacinque chilometri di curve che si arrampicano in salita nella Sierra Tarahumara e giungiamo nella cittadina montana popolata da meno di quattromila anime, a 2340 metri d’altitudine.

Cerchiamo sistemazione presso alcune cabañas ma con nostra sorpresa finiamo all’interno di una spaziosa baita in legno, con due grossi letti matrimoniali, un accogliente divano, un caminetto ed una cucina attrezzata, all’interno del bagno risalta la tavoletta imbottita e gli asciugamani griffati Ralph Lauren, il tutto per circa trentacinque dollari a notte, sette dollari a persona.

Dopo giornate di caldo e umidità intensi qui troviamo un clima piacevole e fresco, che durante la notte diventa quasi freddo, il paesino è carino e la sistemazione molto confortevole quindi decidiamo di fermarci una settimana.

Visitata la cittadina, che ha il centro della sua vita intorno alla Piazza principale, ci accordiamo per un furgone che ci porterà alle sorgenti termali di Recohuata, dove passeremo delle piacevoli ore immersi nelle acque calde nello spaccato di un canyon dove oltre a noi c’era soltanto una bambina Tarahumara che si arrampicava tra le rocce con la sua capretta.

Nei giorni successivi, sempre in furgone, arriveremo a nord, per assistere allo spettacolo della Cascada de Basaseachi. L’autista ci saluta spiegandoci i tempi di discesa e risalita e dandoci appuntamento per il ritorno, noi iniziamo la marcia seguendo il sentiero tra gli alberi. La cascata è la più alta del Messico, con i suoi duecentoquarantasei metri, e lo spettacolo è entusiasmante, soprattutto visto dell’alto, da dove l’acqua inizia il suo tuffo facendosi strada tra le rocce.

Mentre ci godiamo la vista e facciamo qualche foto, Sicce si improvvisa Geronimo e si avventura tra la vegetazione alla ricerca di chissà cosa, tornerà poco più tardi con in mano un pezzo di legno poco più lungo di un metro che nominerà suo ‘bastone guida’.

Puntuali all’appuntamento con l’autista gli raccontiamo che, come per le terme, anche qui abbiamo impiegato il medesimo tempo per la discesa e la risalita dal canyon e lui pronuncerà la famosa frase che “solo i Tarahumara e dei pazzi italiani come noi possono risalire un canyon nel medesimo tempo impiegato per scendere a valle, non è roba da gringos” che ci riempirà d’orgoglio. Stremati veniamo riportati a Creel, mentre il cielo si fa scuro, e grosse nuvole nere scagliano con forza fulmini verso terra.

Un giorno decidiamo di noleggiare alcune mountain bike ed è necessario percorrere poco meno di una decina di chilometri per raggiungere la Valle de Los Monjes, la valle dei Peni Eretti, con le sue numerose rocce verticali. Alterniamo fasi di pedalata tranquilla a vere e proprie sfide di velocità sullo sterrato, con pietre che saltano da una parte all’altra come proiettili e nuvoloni di polvere che si solleva come al passaggio di una mandria di bufali, ci siamo solo noi e le nostre scassate biciclette da montagna. Arrivati alla Valle de Los Hongos restiamo stupiti da questa folta raccolta di grossi funghi di roccia, ci rilassiamo e successivamente sostiamo poi lungo le sponde del lago Arareko per riposare e rinfrescarci prima di riprendere la marcia e tornare a Creel, anche qui il temerario Geronimo Sicce scomparirà tra la natura per riapparire più tardi.

Lungo la strada ci fermiamo più volte ad osservare le montagne circostanti e non è difficile notare alcune spaccature nella roccia, vere e proprie grotte, dalle quali si intravedono i colori vistosi degli abiti dei Tarahumara che le abitano; notiamo anche delle strutture in legno collegate ad altre grotte che le riparano dagli agenti atmosferici e dagli sguardi curiosi.

Le serate nel tranquillo paesino non sono altrettanto tranquille e, nonostante ogni giorno torniamo alla baita stremati, viste le energie impiegate nelle camminate tra i canyon e percorrendo numerosi chilometri in bici, ogni sera è una festa. Con l’avvocato messicano che è con la propria famiglia nella baita di fronte alla nostra passiamo una nottata a consumare birre e tequila come se fossero acqua, un’altra sera finiamo invece in una discoteca del luogo dove ci sparpagliamo tra la popolazione locale e ci scateniamo in balli sfrenati e scoordinati fino a tarda notte, sulle note della stravagante musica locale.

La nottata che ricorderò però con più piacere sarà sicuramente quella del sedici settembre, la festa dell’Indipendenza Messicana. Tutti gli abitanti del paesino sono riuniti nella piazza centrale già dal tardo pomeriggio poi, verso le ventidue, dopo un discorso carico di orgoglio ed emozione, concluso con il grido ‘Viva Mexico’ inizieranno i festeggiamenti con balli, bevute, cori ed abbracci, in cielo fuochi d’artificio e la temperatura fredda della notte montana scomparirà, riscaldata dal calore della gente.

Durante le giornate approfittiamo del sole per metter ad asciugare qualche indumento e per escogitare modi sempre diversi per convincere Limpia, una bastardina randagia, che da li a breve saremmo andati via e lei non sarebbe potuta venire con noi. La cagnolona in calore da qualche giorno bazzicava intorno alla nostra dimora, cercando di sottrarsi alle attenzioni dei randagi della zona che ogni notte le cantavano varie serenate, prima di essere rifiutati da lei e allontanati da noi.

Los Mochis, Mazatlan, Tepic

Il nostro amico Miguel ci accompagna alla stazione di Creel, da dove parte il leggendario Ferro Carrill “Chihuahua a Pacifico”, una suggestiva linea ferroviaria che attraversa la Barranca del Cobre, il Canyon del Rame.

Scattiamo una fotografia in prossimità del cartello che indica il nome e l’altitudine della cittadina, una alla locomotiva a vapore del treno di Classe Economica e saliamo a bordo.

Il tempo di percorrenza stimato è di nove ore per poco più di trecentocinquanta chilometri.

Seguendo le indicazioni della guida scegliamo i posti sul lato sinistro, per avere la visuale diretta sul canyon ma passeremo gran parte del tempo tra un vagone e l’altro, a osservare, filmare e fotografare.

Cinquanta chilometri dopo la partenza c’è una sosta programmata di venti minuti a Divisadero e, passando attraverso varie bancarelle si arriva ad una balconata che permette di godere di una delle viste migliori sulla Barranca del Cobre. Tutti in carrozza! si riparte in fretta perché ci sono ancora molte ore prima della destinazione.

Il convoglio procede molto lentamente, a tratti sembra quasi di essere fermi, guardando fuori dal finestrino è facile comprenderne il motivo. La ferrovia è aggrappata alla montagna e ne segue le sue forme, disegnando curve con angolazioni diverse ad ogni metro, più in basso, sulle pareti del canyon è facile avvistare vecchie carrozze precipitate o locomotori esplosi.

La marcia rilassata ci permette di osservare bene il paesaggio, conosciamo poi delle ragazze che scenderanno un paio di fermate dopo, continuiamo a fare riprese sulle ripide pareti di roccia che scendono verso il fiume. Ognuno di noi si ritaglia qualche momento da dedicare ai propri pensieri, poi si parla, Sicce intona Hey Jude e canticchiamo un po’ ed arriva il tramonto, dura pochi istanti, il tempo di notare che il corso d’acqua al fondo del canyon si allarga in una sorta di lago per poi stringersi nuovamente in fiume e cala l’oscurità. Il buio viene interrotto da qualche fulmine in lontananza, il lungo serpente ferroso procede il suo viaggio, strisciando lento.

Arriviamo sulla costa del Pacifico e più precisamente a Los Mochis all’una di notte, dopo undici ore. Non ci è difficile trovare un alberghetto nella cittadina universitaria, per riposare una notte prima di riprendere la marcia e scender giù lungo la costa.

Proprio sulla costa si trova Mazatlan, nello stato di Sinaloa, la nostra tappa seguente. La partenza sarà nel pomeriggio, nonostante l’impiegato avesse garantito a Sicce che ci sarebbe stato un autobus ogni ora. Sosta per cena a Culiacan, a metà strada per arrivare a destinazione in nottata. Troviamo sistemazione in un piccolo albergo nella parte vecchia della città, quella per intenderci vicino al porto. La nostra camera è composta da due stanze collegate, disposte ad elle, nelle quali sono incastrati con precisione cinque materassi, un paio di ventilatori mal conci garantiscono il minimo di circolazione d’aria indispensabile per non soffocare e le luci sono deboli e tremolanti.

Lasciati gli zaini usciamo per fare un giro nei dintorni deserti, le uniche forme di vita sono rappresentate da un paio di ragazzi che se ne stanno per i fatti loro a fumare qualche canna e da vari scarafaggi delle dimensioni di una macchinina Bburago che gareggiano tra loro in un rally che si snoda tra i marciapiedi, le strade e le piazzette, evitando con manovre rapide e precise i numerosi ostacoli composti dalle cartacce e da frutta e verdura scartati durante il giorno dal mercato, terminiamo la serata con qualche birra.

Al corrente che la località balneare abbia molto di più da offrire il mattino seguente saliremo su un taxi collettivo in direzione della parte nuova, dove troveremo sistemazione presso l’Appartamento dei Sogni.

L’oceano è dall’altra parte della strada, i locali della Zona Dorada a due passi, per raggiungere l’ingresso del paradiso basta lasciarsi alle spalle il surf shop, attraversare le due sottili colonne bianche che sorreggono una balconata, subito di fronte una scala che divide due edifici con i tetti verdi, due rampe di scale e si arriva su un altra balconata sul retro che collega tutti gli appartamenti.

Si entra in una grossa sala con dei divani e delle poltrone sulla destra e poco più avanti, sulla sinistra si trova l’isola all’americana della cucina, si accede alle due camere con i due bagni della zona notte.

Trascorreremo diversi giorni nella città costiera, per lo più rilassandoci durante il giorno e facendo festa in locali come Joe’s e Bora Bora durante la notte. Qualche volta la festa iniziava già dal pomeriggio con i secchielli da sei birre o con la nostra personale riserva di Sol da un litro che ci occupavamo poi di riportare giù vuote per aver indietro la cauzione, per comprare altre birre ovviamente. Avere una cucina ed un frigo si rivela tanto la nostra salvezza quanto la nostra rovina. Una sera invitiamo a cena le tre ragazze dell’appartamento attiguo al nostro con Chef Guino e le solite quantità di birra e vino tinto che sembravano moltiplicarsi da sole all’interno del frigo, poi si continua con le feste di schiuma, i secchielli e, tornando verso casa la ‘sosta bimbo’, ovvero i piccoli hot dog venduti dai chioschetti ambulanti.

Ma Mazatlan non è solo questo, la ricorderò sempre con piacere perché è stata il luogo del primo contatto vero con le onde e l’oceano. Avendo un surf shop sotto casa è stato naturale noleggiare dei bodyboard e provare ad entrare in acqua. Leash legato al polso, pinnette ai piedi e dentro a faticare tra le ondine. Ne usciamo dopo qualche ora, fisicamente distrutti ma felici e soddisfatti.

Purtroppo il tempo inizia a scarseggiare e dobbiamo muoverci, nel nostro giro ideale ci sono ancora un paio di posti da visitare ed è quindi ora di muoverci.

Giungeremo nella città di Tepic, più a sud, nel tardo pomeriggio e ci concederemo una cena in uno dei migliori ristoranti della città, con il suo terrazzo coperto affacciato proprio sulla Plaza Principal. Tepic rappresenta una sosta intermedia lungo la strada per Sayulita, una cittadina rilassata sull’oceano situata più a sud, scelta casualmente sulla guida perché la sua descrizione ci incuriosiva. Per arrivarci però non c’erano (e non ci sono tuttora) collegamenti diretti da Mazatlan.

Dormiamo in un albergo in posizione comoda per le attrazioni della città anche se non è facile dopo aver passato una settimana in un enorme appartamento riabituarsi agli spazi di una camera standard occupata da cinque persone.

Sulla Plaza Principal si trova la Cattedrale con di fronte il Palacio Municipal, dirigiamo poi la nostra attenzione verso alcune signore in abiti tradizionali huichol che vendono opere di artigianato delle più varie, tra cui spiccano dei particolari quadri molto colorati. All’arrivo di qualche goccia di pioggia deviamo il nostro percorso verso un museo poco distante. All’interno del Museo Regional di Nayarit ritroviamo alcuni quadri simili a quelli visti poco prima ma più grandi. La gentile guida ci fa notare che vengono fatti disponendo dei fili colorati sopra una base in legno coperta di cera d’ape e che i soggetti di questi quadri sono solitamente presi dai racconti soprannaturali e dalle visioni degli sciamani sotto l’effetto del peyote, spesso sul retro di queste opere è descritto cosa rappresentano le immagini raffigurate. Proseguendo la nostra visita all’interno della piccola struttura visitiamo altre due stanze, una con all’interno oggetti di epoca pre-ispanica ed un’altra con gli abiti tradizionali degli sciamani. Ci vengono fornite diverse informazioni sulla storia degli indigeni Huichol e sulle loro usanze, in particolar modo sul pellegrinaggio di quattrocento chilometri attraverso gli altipiani centrali del Messico, che li vede coinvolti ogni anno alla ricerca della Lophophora Williamsii, appunto il cactus peyote.

Ci guardiamo tutti e cinque e ci va poco a notare quanto sia strano che la pioggia abbia modificato i nostri programmi portandoci in questo museo, nel quale abbiamo poi trovato così tante informazioni e oggetti dedicati ad un qualcosa che ci incuriosiva così tanto fin da prima di partire per il viaggio.

La giovane guida ci spiega inoltre che durante il pellegrinaggio vengono raccolte e seccate le piante, una piccola quantità viene consumata sul luogo per ringraziamento alla terra e per rendere meno faticoso il ritorno, ed il resto viene riportato al villaggio. Oltre ai rituali di festeggiamento gli usi che ne fa lo sciamano possono variare dalla cura di malattie alle previsioni sul raccolto o sull’allevamento.

Ed arriva il momento che sinceramente non ci aspettavamo, il giovane chiede al suo superiore più anziano, che acconsente, tra i vasi di piante disposte nel piccolo corridoio ne prende uno e ce lo porge, siamo davanti ad un piccolo cactus alto poco meno di una decina di centimetri  e con un diametro intorno ai sei, signore e signori ecco a voi il peyote! Sguardi stupiti, sorrisi, foto in posa come se si fosse in presenza di un nuovo amico, con in sfondo gli abiti dello sciamano e i coloratissimi quadri.

Pochi istanti dopo siamo tutti e cinque stipati all’interno di una nuovissima Hyundai Atos, alla guida c’è un tassista ragazzino che dice di esser maggiorenne e che quella macchinetta con i colori e la targhetta Taxi è il suo orgoglio, secondo noi non ha più di sedici anni. Contrattato il prezzo si parte, usciamo di poco dalla città ed iniziano i problemi, non per noi, ma per il nostro giovane autista, che dovrà far passare le ruotine della sua Atos attraverso il fango, le buche e le pietre della strada sterrata che si arrampica sulla collina, veniamo sorpassati da pick up e jeep che sfrecciano alzano montagne di polvere, immagino la disperazione nella mente del ragazzo per la sua povera citycar. Giungiamo a destinazione, davanti a noi un rettangolo di cemento con un canestro arrugginito ed alcuni bambini che giocano. Subito alle spalle del campetto sono sistemate varie baracche, pronunciamo il nome riferitoci dal responsabile del museo e veniamo accompagnati da una bambina all’interno di una di queste case costruite con vari materiali di recupero. All’interno della prima camera ci sono due videogiochi anni ’80 ed altri bambini, andiamo avanti e c’è un altro spazio con un lettone ed una cucina, si esce poi sul giardino posteriore dove lui è li ad attenderci. Una figura alta, pelle scurissima e lunghi capelli bianchi, vestito in jeans come gli Indiani d’America che si vedono nei telefilm tipo Renegade, il suo sorriso è luccicante perché dei profili d’oro rivestono la parte finale dei denti, abbiamo davanti a noi uno sciamano. Al suo fianco una signora bassa, anche la sua pelle è annerita dal sole, ci sorride continuando a pulire le verdure. Parliamo un po’ con lui e gli spieghiamo che è stato il responsabile del museo a indicarci come raggiungerlo, dal suo ghigno e dall’espressione rilassata sembrava che lo sapesse già e che ci stesse aspettando. Rientrando in casa, sul lettone espone alcuni dei suoi quadri e qualche altro oggetto, ci spiega il significato dei disegni e ci fa notare che nel retro di ogni sua opera c’è una piccola storia narrata da lui. Compriamo qualche quadro e Lollo chiede timidamente informazioni sulle piantine, lo sciamano risponde con il suo inconfondibile ghigno ed il luccichio dorato che si scorge tra le sue labbra, si assenta e torna poco dopo con due piccoli cactus. Ci fa un ripasso della lezione che ci era stata spiegata al museo e ci saluta calorosamente.

Il giorno dopo, in tarda mattinata, chiudiamo i nostri giorni a Tepic con un’escursione al Cerro de la Cruz, una collina che sovrasta la città e dalla quale si gode una vista fantastica su di essa.

Sayulita

L’autobus per Sayulita in realtà si ferma sulla strada principale che va a Puerto Vallarta, c’è poi da camminare qualche centinaio di metri prima di incontrare il bivio Sayulita / Punta Mita. La cittadina è proprio come ce l’aspettavamo, piccola e semplice. Troviamo sistemazione in una cabaña a due piani sulla spiaggia. Qui, a differenza di Creel, per cabaña si intende proprio una capanna, fatta da assi di legno che sorreggono un tetto di paglia e quando dico sulla spiaggia intendo proprio sulla sabbia, con l’oceano a una quindicina di metri, il paradiso, a pochi pesos a notte.

Vista la semplicità e genuinità del luogo ci viene naturale adottare uno stile di vita il più rilassato possibile, cibo, qualche birra e qualche prova di surf. Incontriamo un sacco di persone diverse che vengono da tutto il mondo, chi per il surf, chi per rilassarsi chi, come noi, totalmente a caso. I tramonti sono magici, accompagnati dal saluto di infinite specie di rumorosi volatili. La sera ogni tanto un giretto per quei tre quattro locali della piazzetta principale lo facciamo ma di solito passiamo le nottate sulla spiaggia, attorno al fuoco, parlando, ridendo, coccolando cani magici e sognando sotto un tappeto sterminato di stelle.